Nel suo ciclo più recente fonde un genere caro alla pittura italiana del Rinascimento - i Tarocchi - con continui rimandi al presente. Elabora un “bestiario” in cui si ritrovano figure mitiche e volti attuali (il suo e quello di artisti, registi, attori). Come riesce a far convivere queste identità?
Ho sempre compreso più facilmente gli oggetti che le persone. Ho sempre avuto un’affinità con le forme e i gesti del mito. I Tarocchi sono il compendio di un linguaggio rituale. Inoltre, mi è più facile vedere i miei amici proprio attraverso questo linguaggio: ad esempio, “travesto” qualcuno da Re di Spade, trascurando i dettagli della vita personale o professionale.
Come spiega il suo bisogno di rappresentare spesso se stesso, sin dagli anni della Transavanguardia?
Da giovane lessi questa frase: «Dov’è il tuo centro? E quando lo avrai trovato che cosa te ne farai?». Questo cammino a ritroso verso un possibile centro è all’origine dei miei autoritratti. Mi affascina la speranza di azzerarmi del tutto, per poter ricominciare.
L’approdo: una sorta di pop concettuale. Si riconosce in questa definizione?
Vorrei dire di sì, ma ho sempre lottato per non essere omologato a questa o quella definizione. Ora mi chiedo perché… Vorrei lottare meno, ma un senso di ribellione continua ad assediarmi.
Talvolta, nei suoi quadri, sceglie di “usare” personaggi dello star system culturale e cinematografico (Jasper Johns, Edward Albee, Fran Lebowitz, Max Seidel, Ron Arad, Salman Rushdie, Scarlett Johansson). Un mondo che lei frequenta e che la ama molto. Come si spiega la sua scelta “warholiana”?
Pittura è impassibilità dello sguardo. Richiede l’equanimità dell’occhio, che deve saper osservare con la medesima timidezza la star e la nonstar, nella speranza di restituire un po’ di realtà a entrambe.
Il tema dell’ultimo ciclo è la fortuna. Un implicito richiamo alle sue origini partenopee? O una confessione della sua natura scaramantica?
No, tutti i miei “traffici” con le tradizioni mistiche e contemplative mi hanno reso completamente immune a pensieri scaramantici o superstiziosi. Ma vorrei anche ricordare che Napoli è l’unica città in Italia ad aver avuto una rivoluzione illuminista. E, tuttavia, come negare che la fortuna esiste? Almeno la fortuna intesa come capacità di non farci male da soli.
Quanto ha inciso la fortuna nel suo itinerario?
Molto. Soprattutto nei tempi. Sono cresciuto in un contesto che rifiutava la modernità. Di questo contesto ho assorbito il senso di relativismo e di gioco. A metà degli anni Settanta ho mostrato il mio lavoro. La nonmodernità del mio stile è stata accolta non come un limite, ma come una profezia.
Infine, l’omaggio per Io Donna. Sulla copertina del numero di fine anno appare un’opera intitolata Alba. Com’è nata? Che rapporto ha con il tema della fortuna?
A destra c’è un autoritratto. Ho voluto dipingere un’ambiguità. La tenda da cui emerge la figura si apre per mostrare o si chiude per nascondere? In primo piano, a sinistra, un ritratto di Alba, mia moglie. Un anno fa l’avevo ritratta come “La Stella” nei miei Tarocchi. “La Stella” è la buona stella, quella che orienta chi deve navigare nell’incertezza. Un tributo alla mia Alba. E alla femminilità. Che è l’unico vero Oriente, la vera fortuna.
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