PUT THE BLAME ON MAME - LAURA GIARDINO SOLO EXHIBITION
opening h19 - performance h20
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Ogni linguaggio è intrinsecamente polisemico e multi direzionale e l’arte, nella sua qualità di codice e di idioma, non fa eccezione. L’ambiguità è una caratteristica di qualsiasi tipo di espressione, sia essa verbale, lessicale o visiva, ma è pur vero che le immagini sembrano possedere un più alto grado di evasività rispetto alle espressioni della fraseologia parlata o scritta. Naturalmente, l’interpretazione che un osservatore può dare di una determinata immagine dipende da molti fattori, come ad esempio la quantità d’indizi che l’artista dissemina nell’opera, oppure il clima emotivo che la caratterizza, la dominante cromatica, la messa a fuoco e molti altri elementi squisitamente tecnici.
Le scelte tematiche di Laura Giardino sono forti prove indiziarie del fatto che, attraverso la pittura, essa voglia condurci su un terreno torbido ed equivoco, seducente e sinistro quanto la trama di un film noir. Anzi il modello letterario e cinematografico del genere noir, derivazione psicologica del giallo, ben si applica alle immagini costruite dall’artista. L’obiettivo del noir non è soltanto la descrizione e risoluzione di un crimine, come nel caso delle tradizionali detective story, ma la narrazione di una ricerca della verità che passa attraverso il turbamento, l’inganno e la menzogna e che spesso culmina con un sentimento di amara disillusione. Il detective hard boiled non è, però, il protagonista dei racconti di Laura Giardino, che concentra l’attenzione piuttosto su un altro character del genere, la dark lady. Personaggio stereotipato, che incarna i tratti della seduttrice, la dark lady è un’evoluzione a stelle e strisce della decadente femme fatale, della quale conserva il fascino oscuro e perverso, a tratti diabolico. Sviluppatasi tra gli anni quaranta e cinquanta, la figura della dark lady, della vamp rispecchiava il clima tipicamente misogino della cultura americana del dopoguerra. Ricordate l’ideale femminile degli anni Cinquanta della casalinga perfetta, moglie irreprensibile e sorridente madre di famiglia? Ecco, la dark lady è l’esatto opposto: misteriosa, infedele, manipolatrice, inaffidabile e dannata. La nemesi, insomma, dell’ideale femminino dell’uomo medio americano. Lo sviluppo del genere noir rispecchia quindi la temperie sociale di quegli anni, ma anche l’insorgere di un nuovo modello di donna libera, indipendente e, dunque, destabilizzante per l’establishment maschile.
Laura Giardino individua in Gilda, interpretata da Rita Hayworth nell’omonimo film di Charles Vidor del 1946, il tipo della moderna donna inquieta, alla ricerca di un difficile affrancamento dal ruolo impostole dalla società. Attraverso provocazioni, intrighi e tradimenti, Gilda usa la seduzione come strumento rivoluzionario di autoaffermazione, confondendo e disorientando i protagonisti maschili della vicenda. Put the blame on mame è la canzone cantata da Gilda nella celebre scena dello spogliarello con i guanti. Il testo è abbastanza oscuro e fa riferimento a fatti lontani nel tempo, come il terremoto di San Francisco del 1906 e una fantomatica sparatoria nel Klondike in cui viene colpito un certo Dan McGrew. La sostanza del testo, però, pone sarcasticamente l’accento sul ruolo di capro espiatorio della donna. “Date la colpa a Mame, ragazzi, date la colpa a Mame”, recita la canzone. Viene da chiedersi, allora, se la dark lady sia vittima o carnefice. E se le cose non fossero come appaiono?
Intorno a questo dubbio ruotano le opere di Laura Giardino. “La mostra è un’indagine su Mame”, afferma l’artista, “una donna che non esiste, perché rappresenta tutti e nessuno”. Attraverso il consueto recupero di iconografie vintage come immagini pubblicitarie, foto amatoriali e cartoline, Laura Giardino muove una ferma critica all’identità, intesa come costruzione culturale fittizia. Gilda è quindi l’incarnazione simbolica dell’eterno conflitto tra individuo e maschera sociale. Sebbene le protagoniste dei dipinti e dei disegni dell’artista siano quasi sempre donne, l’indagine, che qui diventa anche affermazione politica e ideologica, non riguarda solo il genere e la sessualità femminili, ma abbraccia idealmente chiunque.
L’ambiguità connaturata alle immagini, dicevamo, è l’elemento chiave di Put the blame on Mame, mentre l’atmosfera noir, insieme ad un certo erotismo d’antan in salsa pop, ne costituiscono il principale attributo stilistico. In quasi tutte le opere l’incertezza interpretativa si accompagna alla presenza di elementi disturbanti, a volte anche sgradevoli, che generano un contrasto o un corto circuito all’interno dell’immagine. Se nei dipinti Coro e Gabbia permane una certa indecisione su quale sia il soggetto realmente imprigionato dietro le sbarre e perfino se si tratti di sbarre o di semplici grate, in opere come Déjeuner e All Inclusive l’idilliaca e un po’ artefatta felicità dei personaggi contrasta nettamente con la tetra desolazione dei paesaggi industriali sullo sfondo. La stessa dicotomia si registra anche in Factory girl e One Way, dove all’atteggiamento sessualmente sfrontato delle donne in primo piano fa da contrappunto uno scenario “sociale” o “ambientale” palesemente sfavorevole. Infatti, se i personaggi sullo sfondo di One Way sembrano osservare beffardi lo spogliarello della ragazza, in Factory Girl è la desolazione della fabbrica (factory, appunto) ad essere in contrasto con la bionda in primo piano.
Enigmaticità e indeterminatezza caratterizzano soprattutto lavori come In cucina, In bagno e La Colazione dei campioni dove la narrazione, apparentemente interpretabile come l’episodio di una crime story, lascia spazio a dubbi e ripensamenti. Se il corpo steso al suolo nell’opera In bagno non fosse un cadavere, ma appartenesse, supponiamo, a qualcuno che ha perso i sensi a causa di una sbornia colossale? L’atteggiamento distaccato, quasi scocciato, della donna con la vestaglia avrebbe un senso. Nel dipinto In cucina, la seducente pin up con i coltelli conficcati nella carne potrebbe essere una performer, una sorta di variante masochistica del tradizionale fachiro indiano. D’altra parte, la casalinga alle sue spalle non sembra darsi troppa pena. Non è chiaro, nemmeno, che cosa stia facendo la donna in lingerie di La colazione dei campioni. Si tratta forse di uno spettacolo di bondage a beneficio dell’uomo seduto al tavolo? E che ci fa una bellissima playmate distesa su una scrivania da ufficio, per giunta alla presenza di una coppia dall’aria borghese? Forse è in corso un set fotografico per qualche rivista di soli uomini? Non lo sapremo mai, così come non scopriremo mai se sia sangue o marmellata il fluido sul coltello della bambina in Piccolo aiuto. Il più delle volte i titoli non ci facilitano e il soggetto rimane vago, incerto, come nel trittico intitolato Haircut, dove, facendo il verso ai modelli di capigliature degli anni Settanta, Laura Giardino costruisce una fitta trama di rimandi tra la cultura popolare (la Farrah Fawcett di Charlie’s Angels) e la subcultura punk (il teschio con la cresta degli Exploited, gruppo hardcore inglese dei primi anni Ottanta).
Oltre all’ambiguità, l’attitudine antagonista, contestataria nel senso più ampio possibile, impronta tutto il lavoro dell’artista milanese, che può spaziare dall’immaginario politico degli anni di piombo (come in certe recenti carte con ritratti di terroristi della Baader Meinhof) alla cultura underground (vedi i riferimenti a band come i Cramps e i Misfits), fino alla pornografia. Quest’ultima, in particolare, è considerata come una sorta di spazio di resistenza in cui vanno esprimendosi nuovi aneliti libertari, alla stregua di altri movimenti o subculture del recente passato. Non è un caso, infatti, che opere come Washing sin, Filo spinato, Wow e Seven arms, con quel loro miscuglio di seduzione pop e atmosfere torbide, finiscano per richiamare esplicitamente un certo contesto hard non patinato, posto all’incrocio tra l’estetica punk e il porno amatoriale.
Ivan Quaroni
22-4/29-5 2010
Galleria Spazioinmostra
via Cagnola, 26 - Milano
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