RITENGO CHE SIA DOVERE DI CHIUNQUE E A MAGGIOR RAGIONE DI NOI ITALIANI, FARE DI TUTTO PER PROMUOVERE, SALVAGUARDARE E DIVULGARE L'ARTE IN TUTTE LE SUE ESPRESSIONI.
UNA SOCIETA' DISTRATTA SUI FATTI DELL'ARTE E' UNA SOCIETA' VOTATA ALL'IMPOVERIMENTO... E NOI, DA QUESTO PUNTO DI VISTA, LO SIAMO GIA' ABBASTANZA!






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mercoledì 28 aprile 2010

Beluffi/Beatrice... interessante

Mi piace leggere, ed invito a farlo anche a quei due/tre lettori di questo blog, questo divertente teatrino critico/letterario...

Luca Beatrice, per quanto bravo e attento è un critico alla moda con qualche scheletrino nell'armadio (anche durante l'ultima biennale) del quale non sempre condivido le scelte ma ne stimo il coraggio e la professionalità.
Emanule Beluffi mi piace, anche se non sempre (come ovvio e naturale che sia) appoggio la cernita. Di lui sicuramente oltre al raffinato intuito, da apprezzare è l'incessante presenza e militanza sul territorio.

Mi permetto comunque di dare un consiglio agli artisti:
basate tutto sulla qualità, sia che usiate per esprimervi, il mezzo pittorico che la foto, l'installazione che il video, la grafite che l'acquerello. Usate il cervello e combattete per la ricerca e l'ottenimento della qualità. Solo quella vi permetterà di emergere.






"Pittore, se vuoi la fama diventa mediocre" di Luca Beatrice

Sciatto, trasandato, incerto e con una punta di arroganza: questo è il tipo di artista esaltato dai critici Per i quali vendere molti quadri è da piccolo borghese. Eppure in Italia i giovani di valore non mancano.





Facciamo un gioco. Prendiamo un quadro figurativo di buona (anche se non eccelsa) qualità.
Appendiamolo per una settimana alle pareti del ristorante pizzeria Marechiaro. Quindi trasportiamolo in una galleria media, di quelle che i critici con la puzza al naso definiscono sbrigativamente «commerciali». Infine inseriamolo in una mostra importante, curata da un nome giusto, nelle sale della Fondazione Sandretto o di un museo egualmente conclamato. Attenzione, sempre lo stesso quadro!
Nel primo caso avremo l’elaborato domenicale di un dilettante, che per hobby ha chiesto al proprietario del ristorante di ospitarlo e, magari, di provare a venderlo a cento-duecento euro. Nel secondo, il dipinto aumenterà di valore ma non troppo (qualche migliaia di euro), perché la galleria non è così buona e si presume che lì un grande artista non lavorerà mai. Nel terzo e ultimo caso, il quadro prenderà la strada maestra del successo, lodato dagli addetti ai lavori, inseguito dai collezionisti disposti a spendere cifre folli per portarselo a casa, in quanto il suo valore è stato certificato da Bonami o da Birnbaum, dalla Tate Modern o da White Cube. Di tutto sentiremo discutere, tranne che di qualità intrinseca dell’opera.
Dalle prime avanguardie del Novecento è andato infatti radicalizzandosi quell’atteggiamento per cui è il contesto, e solo il contesto, ad attribuire valore all’arte. Per secoli i musei erano pinacoteche piene zeppe di quadri: capolavori, maestri, scuole, epigoni e croste che entravano di diritto a far parte delle collezioni pubbliche in quanto superfici dipinte, dunque riconosciute da tutti come arte. Poi è arrivato il gesto geniale e provocatorio di Marcel Duchamp il quale, piazzando un orinatoio dentro una sala bianca, ci ha dimostrato che qualsiasi cosa sarebbe potuta stare lì, bastava la certificazione del contesto e l’accordo tra i diversi attori del circo. Duchamp tutto avrebbe potuto prevedere, tranne che di essere preso così sul serio dai posteri.

Entrando oggi in uno qualsiasi dei santuari globali dell’arte contemporanea ci troveremo di fronte a una sfilza di oggetti in disuso, scarti, pezzi di neon, sculture minimaliste o forse avanzi di piastrelle, readymade postecnologici, scritte... e a nessuno verrebbe mai il dubbio che non si tratti di arte. Se stanno lì dentro, nel museo, sono arte e basta. E se sono cose brutte e inutili? Chissenefrega! Il paradosso è che la pittura, oggi, è l’ultimo readymade. In quanto linguaggio artistico per definizione e per storia, deve «meritarsi», faticando assai, l’inclusione in posti così cool and trendy che con il passato non vogliono aver niente a che fare.
Domanda: ma se sono un bravo pittore, come posso essere preso in considerazione dai curatori alla moda? Un bel casino, ragazzo mio! Intanto vedi di non essere troppo bravo, troppo capace e virtuoso. Sii sciatto piuttosto, trasandato, incerto, dipingi se puoi come un incapace o un mentecatto. Se qualcuno ti dà del pittore, ribellati, guardalo in cagnesco e spiegagli che tu sei «un artista che usa la pittura». Ricorda: ai critici, che sono spesso artisti falliti, piace il non finito che fa molto «tormento ed estasi»; prediligono i fondi bianchi su cui ritagliare figurine incerte o volti dall’espressione idiota. Se collabori con qualche galleria «di mercato» sei finito. Se vivi decorosamente del tuo lavoro ti daranno del commerciale. Se vendi parecchi quadri ti accuseranno di interpretare il cattivo gusto della piccola borghesia.

E allora? Se proprio ci tieni, almeno in apparenza rimani uno sfigato qualsiasi e comportati da artista, non da ragioniere. E non dire che hai dei soldi, sennò ti danno della puttana.
Altra regola importantissima: sostieni di produrre pochissimo, quattro o cinque quadri l’anno, perché il tuo stile è lungo, tormentato, difficile. E poi, altro must: non rimanere prigioniero della bidimensionalità, del quadro tradizionale, che lo capisce anche la massaia. Espanditi nello spazio, sfonda gli argini, contamina la superficie con materiali anomali, inserisci oggetti e, mi raccomando, ogni tanto fai una fotografia o un’installazione, da abbandonare lì per caso. E infine, ci vuole anche una discreta fortuna, perché l’accettazione di un pittore nel contesto dell’arte contemporanea spesso rappresenta un autentico mistero. Una che passa per essere davvero brava, e di conseguenza costosa, è la romagnola Margherita Manzelli. Tra i più giovani vanno di moda Pietro Roccasalva, imitatore senza particolare qualità e fotocopiatore di Bacon, Simone Berti, autore di strambi animali-macchina su fondo rigorosamente bianco. Secondo i critici killer della pittura, in Italia non ci sarebbe altro.
Invece ignorano o snobbano le decine e decine di ottimi pittori che in un Paese libero e non provinciale come il nostro godrebbero di ben altro trattamento. Alcuni di loro, ma senza esaurire l’ampia disponibilità, Beatrice Buscaroli e io li abbiamo invitati alla Biennale di Venezia nel 2009, e tra poco ne parleremo, contando che Vittorio Sgarbi faccia altrettanto nel suo Padiglione Italia 2011. Chi segnalare tra le decine di pittori «under quaranta» meritevoli oggi d’attenzione? Certamente nella linea che si ispira al disegno, all’illustrazione, alla sintesi e all’immediatezza, vanno considerati Gabriele Picco, Fausto Gilberti, Andrea Mastrovito, Laurina Paperina, Laboratorio Saccardi, Erica il Cane, Blu (questi ultimi due appartengono alla corrente dei nuovi graffitisti presentati nella mostra «Street Art, Sweet Art», del Pac a Milano nel 2007). Tra i pittori «puri» suggeriamo senz’altro di prestare attenzione a Gabriele Arruzzo e Manuele Cerutti, mentre tra coloro che usano questo linguaggio mescolandolo ad altri, la cosiddetta Expanded Painting, molto buono risulta il duo fiorentino Pieralli & Favi.

Pagina di cultura del Giornale di mercoledì 21 aprile.


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OH BEATRICE

di Emanuele Beluffi




Luca Beatrice ha da poco dato alle stampe il libro Da che arte stai? Una storia revisionista dell'arte italiana. E lo scorso Mercoledì 21 Aprileil Giornale ne ha pubblicato uno stralcio. Chi se ne frega, dirà il popolo. Ma ci voleva lo sciopero del compassato Corriere della Serva perchè io potessi leggere il pensoso affondo del Beatrice sullo spaesamento della critica odierna, innamorata a suo dire di artisti sciatti che simulano l’attitudine anarchica del bohémien incazzoso, ostile al sistema e proclive a una pittura volutamente mediocre fatta apposta per provocare.

Ora, io non sono un fan di Luca Beatrice (non sono il fan di nessuno, essendo l’unico critico degno della mia stima quel Matteo Marangoni vissuto a metà fra XIX e XX secolo. E non sono neanche tanto sicuro di codesta mia ammirazione), ma debbo dire che lo stralcio pubblicato dal Giornale ha fatto vibrare le corde del mio cuore, suscitando un moto di viva approvazione per le annotazioni del Beatrice.

Non essendo certo che i miei sette lettori usino compulsare il fogliodi Vittorio Feltri, mi tocca fare un riassuntino del testo del succitato critico.

Dunque, il già curatore del Padiglione Italia dell'ultima Biennale veneziana prende le mosse dalla vexata quaestio per cui è il contesto -e solo quello- a definire l'opera d'arte in quanto tale.

In verità il filosofo dell'arte Arthur Danto diede una spiegazione più ficcante, insistendo sullo slittamento semantico dell'oggetto nel momento in cui viene astratto dall'usuale contesto e collocato in una dimensione inedita (le Brillo Box di Warhol), ma il senso è lo stesso: prendi un sasso e piazzalo in una sala bianca, saranno il contesto e il sistemaa certificarne lo statuto di opera d'arte.

Il risultato di questa azione (che se la fai una volta va bene, due idem, ma alla terza pensiamo che ci stai pigliando per il culo), è un impoverimento della facoltà critica.

Scrive il Beatrice: «entrando oggi in uno qualsiasi dei santuari globali dell'arte contemporanea ci troveremo di fronte a una sfilza di oggetti in disuso, scarti, pezzi di neon, sculture minimaliste [...] e a nessuno verrebbe mai il dubbio che non si tratti di arte [...].

Con grave scorno non solo della critica, ma anche del gusto e della disciplina, pittorica in modo particolare, mezzo espressivo cui evidentemente il Beatrice tiene molto: «Il paradosso è che la pittura, oggi, è l'ultimo ready-made. In quanto linguaggio artistico per definizione e per storia, deve meritarsi l'inclusione in posti così cool and trendy».

Fine del riassuntino, ho privilegiato il copy/paste 'chè si fa prima e non ho voglia di perdere il mio tempo con pensieri masticati da altri.

Caro Luca Beatrice, sono pienamente d'accordo con te.

In effetti la facoltà di giudicare patisce il peso esercitato dalla sovrastruttura ideologica del sussiego perbenista della critica dipendente e salariata (spero non ti fischino le orecchie), inducendo il pensiero a contenersi dalla verità -che a volte è lì sotto il naso di tutti come la lettera rubata di Poe- e a ciurlar col manico delle divagazioni speculative su nozioni raccogliticce e imparaticce, pur di non dire “questo è un bel quadro”, oppure“questo quadro fa cagare”.

Col risultato d’occasionare una critica coatta, non nel senso romanesco del termine, ma in quello dell’autocastrazione indotta dal principio di realtà. Incidentalmente incarnatosi nelle interdizioni mandarine dell’ideologia critica corrente, che manderebbe al confino, insieme alla Sora Lella che scambiò un’opera d’arte per una sedia su cui posar le terga dopo la faticosa visitazione al museo d’arte contemporanea, chi si esercitasse a pronunziare il venerabile giudizio: “questo è un bel quadro” (o di rimando“questo quadro fa cagare”).

Insomma, caro Luca, giustamente te la prendi con la critca à la page che snobba la produzione di artisti che forse oltre confine godrebbero di un diverso riconoscimento. E citi, come contraltare ai Pietro Roccasalva e Margherita Manzelli che evidentemente a te non garbano, pittori come Gabriele Arruzzo e Manuele Cerutti e alcuni giovani dipintori che variamente s’ispirano al disegno e all’illustrazione, come Laurina Paperina, Erica il Cane, Blu, Laboratorio Saccardi et cetera.

«Meglio non esser troppo bravi», dici, «ai guru piace il finto tormento del non finito». E con un ingigantimento volutamente grottesco dello stato di cose scarichi i tuoi strali contro gli artisti straccioni che, sfruttando il contesto, la sfangano come utenti della pittura. E contro i critici alla moda, cialtroni che a tuo dire l’hanno assassinata, rei di non riconoscere il valore dei succitati Laurina Paperina, Gabriele Arruzzo et ceterae che fanno passare come autentiche meraviglie dell’Estetica contemporanea quelle che invece son solo brutture.

Ora, caro Luca, di là dal fatto che Pietro Roccasalva a me garba e a te no (e di là dal fatto che tu stesso sei un critico alla moda): l’è tutto vero!, come disse il banchiere «un gradino sotto Dio» Pierfrancesco Pacini Battaglia quando mascariò Antonio Di Pietro sui presunti accrediti per uscire dall’inchiesta giudiziaria volgarmente nota come Mani Pulite.

Non basta fare un buon quadro. Anzi, una pittura ben eseguita sarebbe bollata come tradizionale. E quand’anche godesse del riconoscimento della buona mano, pagherebbe lo scotto di non veicolare un messaggio chiaro. Quando poi leggi i testi critici e i comunicati stampa che ti spiegano il senso della produzione del tale artista, ti rendi conto che, se quello era il messaggio, allora anche tua nonna poteva fare una mostra lì. O scriverne il testo critico.

[ Oh Beatrice. Di Emanuele Beluffi, pubblicato su Lobodilattice il 28/04/2010 ]
http://www.lobodilattice.com/node/6127

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