Inizia il conto alla rovescia per la personale di Armodio a Palermo, "La dimora delle verità silenti", a Palazzo Reale 14 settembre – 5 ottobre 2012, curata dalla Dott.ssa Daniela
Brignone e del Prof. Giovanni Faccenda.
Armodio |
In anteprima ecco il testo, in catalogo (Editoriale Giorgio Mondadori), del Prof. Faccenda:
Prof. Giovanni Faccenda |
La
dimora delle verità silenti
«Tutto è sospeso come in un'attesa.
Non penso più. Sono contento e muto.
Batte
il mio cuore al ritmo del tuo passo.»
Camillo Sbarbaro, Io
come un sonnambulo cammino
Dopo un affascinante tragitto durato almeno
tre anni nel più impervio ed essenziale versante della metafisica, scandito da
un ciclo di opere vertiginose e dagli apici difficilmente uguagliabili, Armodio
pare ora tornare a una dimensione più narrativa, diresti persino confidenziale, della propria
aristocratica opera pittorica.
Una maggiore eloquenza delle immagini germinate
dalla sua fervida fantasia risalta infatti in questo frangente rispetto al
diffuso ermetismo caratterizzante la stagione espressiva a questa
immediatamente prossima: sono composizioni, quelle alle quali il maestro ha
lavorato negli ultimi dodici mesi, pervase da una tale prodigiosa naturalezza che è facile cedere, per
chiunque sappia guardarle – ergo vederle
–, al consueto, irresistibile incanto.
È evidentemente tempo di riscoperte e di ritorni, l’attuale, per Armodio. Tra il farsi e il disfarsi di
quella «sua» luce magica e peculiare, ove albergano innumerevoli fremiti
immateriali e fascinazioni recondite, è dato fra l’altro di ritrovare antiche
adesioni sentimentali: cose che non
hanno mai conosciuto l’oblio nel sempre inedito – peraltro – e magistrale
repertorio. Ora, però, come evocati nel loro aspetto meno tradizionale, i
medesimi oggetti diventano deliziose presenze all’interno di luoghi che odorano
di una nostalgica memoria, stanze pensate come un disadorno teatro nel quale si
susseguono suggestivi accadimenti.
Armodio è l’ispirato regista che orchestra
simili apparizioni: la maschera che
occhieggia chissà cosa (Poco prima),
dalla curiosa ubicazione nella quale si trova, ovvero una pentola di cui lei
stessa ha appena sollevato il coperchio, induce a pensare l’avverarsi di
qualche inatteso evento. Sia, dunque, una Prova
di volo, il più improbabile dei matrimoni sancito con un subito precario Sì o un Vulcano di stoffa, cucito in quattro punti, che libra nell’aria
piccole gemme preziose, qualcosa,
ogni volta, finisce per succedere in tali, intriganti copioni. Ma è davvero
tutto ciò che sembra oppure è bene limitarsi a semplici supposizioni?
L’argomento, nei più avvertiti, suscita al
solito marginale interesse. Più che godere della consapevolezza data dall’aver
risolto l’enigma occultato nei vari soggetti, vorremmo invero maggiormente
saperne - per quanto naturalmente ci sia concesso - delle mille alchimie compenetrate
dentro una così sbalorditiva pittura, addentrarci fra i segreti dei grigi che
partoriscono bagliori zenitali, perdersi nei ricercati impasti e nelle stesure
della tempera prima che essa raggiunga quella lievissima densità destinata a rabbrividire
perpetua. Perché non ha sbagliato chi, per Armodio, anni fa ritenne di spendere
la celebre definizione data da Giorgio Vasari ad Andrea del Sarto: «il pittore
senza errori». Non ve ne sono, neanche se li voleste cercare per tutta
l’eternità, in queste - piccole per dimensione, ma immense per qualità - tavole
dipinte.
Un elemento di continuità con il periodo
creativo vissuto da questo virtuosissimo artefice nel precedente arco di tempo
è comunque testimoniato dal mantenimento di alcuni moduli architettonici di
sapore quattrocentesco che certo impreziosiscono la cospicua identità della sua
opera. Richiami, a Cosmè Tura (L’offerta,
Forse) e più apertamente a Piero
della Francesca (rimarchevole la sagacia con la quale Armodio ha trasfigurato
la scena de La Madonna del parto ne L’ospite inatteso), ove è dato di
scorgere l’affermazione dei propri mirabili modelli e, insieme, un
inestinguibile desiderio di appartenenza ai valori autentici della pittura.
E allora, magari nell’inconscio dell’autore,
altro è il significato delle lacerazioni,
dei tagli (La fetta, Come mai) e dei buchi (Natura morta) con i quali, in ambito
recente, egli ha deciso di raffigurare eleganti tovaglie di lino sistemate con
cura su ignoti piani d’appoggio, e così certi spilli o minuscoli fermagli che
simboleggiano senz’altro gli assilli e qualche remota ancora nella vita, ma,
per chi ben conosce la vocazione e la capacità astrattiva di Armodio, da
ritenere piuttosto invitanti quanto sibillini pretesti del suo agire.
Indizi, labili, altrimenti disseminati da un
pittore impareggiabile, in grado di offrirci, a ogni attesa occasione, la
percezione limpida di una realtà psichica abitata da entità mutevoli e silenti:
oracoli invisibili che lui soltanto sa dove incontrare le rarissime volte in
cui un pertugio mentale dischiude la soglia della più attraente e misteriosa dimora
metafisica.
Firenze, giugno
2012.
la copertina del catalogo della Mostra |
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