La trilogia esistenziale
Progetto espositivo dedicato
alla memoria di Michelangelo Antonioni
Opere di Elizabeth Aro,
Claudia Maina, I Santissimi
a cura di Maria Cristina
Strati
Inaugurazione
giovedì 26 settembre 2013 ore 18.30 – 23.00
27 settembre – 26 ottobre, 2013
Gagliardi Art System
Via
Cervino 16, 10155 Torino
Tel.
+39.011.19700031_Fax. +39.011.19700032
www.gasart.it
- gallery@gasart.it
Ma
- Sa: ore 15.30 - 19.00
« Quando tu [Antonioni] dichiari
in un'intervista con Godard: "Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini
che non siano affatto realistici", tu testimoni una corretta percezione
del senso: non lo imponi, ma non lo abolisci. Tale dialettica conferisce ai
tuoi film una grande sottigliezza: la tua arte consiste nel lasciare la strada
del senso sempre aperta, e come indecisa, per scrupolo. È proprio in questo che
tu assolvi il compito dell'artista di cui il nostro tempo ha bisogno: né
dogmatico, né insignificante. » (Roland
Barthes, febbraio 1980)
Questa
mostra è dedicata alla memoria del grande maestro del cinema italiano
Michelangelo Antonioni. L’attenzione si concentra in modo particolare sui film La Notte (1961), L’Avventura (1960), e L’Eclisse
(1962), noti al pubblico appunto come “trilogia esistenziale” o “dell’incomunicabilità”.
I
film, che costituiscono una delle pagine forse più intense e ricche di senso
della storia del cinema del nostro paese, si concentrano in modo particolare
sul tema della difficoltà dei rapporti umani nella nostra epoca, sull’incomunicabilità,
sulle tensioni interne alle relazioni di coppia.
Una
particolare attenzione è dedicata ai personaggi femminili: in tutti e tre i film un ruolo fondamentale è,
come è noto, affidato a un’interprete geniale come Monica Vitti.
Per
sviluppare questo progetto sono stati coinvolti tre artisti che lavorano con
linguaggi espressivi tra loro differenti, ma che vertono in modo particolare
sulle installazioni. Ogni artista ha lavorato su un singolo film, cercando di
coglierne e interpretarne il messaggio artistico e di pensiero, per dare vita
ad un lavoro autonomo, nuovo per linguaggio e contenuto, ma capace di porsi in
dialogo sia con le opere di Antonioni, sia con gli altri lavori in mostra.
Dato
che ogni artista occupa una sala della galleria, il progetto si sviluppa quasi
più come una triplice personale che come una vera e propria mostra collettiva.
Elizabeth Aro (Buenos Aires, 1961,
vive e lavora ad Arona) presenta due installazioni sul film La Notte; Claudia Maina (Milano, 1976) ha sviluppato un percorso espositivo
su L’Eclisse; I Santissimi (al secolo Sara Renzetti e Antonello Serra, nati
entrambi a Cagliari, dove vivono e lavorano, nel 1978) si sono invece
concentrati su L’Avventura.
Ogni
artista ha dato vita all’interpretazione di uno dei tre film di Antonioni per
una naturale affinità con il proprio lavoro, in un gioco sottile di rimandi per
cui il film diventa la chiave interpretativa del lavoro, e viceversa. I progetti
sono stati pensati e realizzati concentrandosi su specifiche scene dei film considerate
essenziali, oppure cercando di cogliere il senso generale e più profondo
dell’opera del maestro di Ferrara.
In
occasione della mostra è prevista inoltre una piccola retrospettiva della
trilogia di Antonioni presso il Cinema Centrale di Via Carlo Alberto, a Torino,
in date ancora da definirsi.
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Non una
parola di più
“Bisogna stare in un posto dove le
parole diventano foglie e così possono rubare i colori alle nuvole e dondolare
al vento”
(Tonino Guerra, Polvere di Sole, 2012)
“Quando tu [Antonioni] dichiari in
un'intervista con Godard: "Provo il bisogno di esprimere la realtà in
termini che non siano affatto
realistici", tu testimoni una corretta percezione del senso: non lo
imponi, ma
non lo abolisci. Tale dialettica
conferisce ai tuoi film una grande sottigliezza: la tua arte consiste nel lasciare
la strada del senso sempre aperta, e come
indecisa, per scrupolo. È proprio in questo che tu assolvi il
compito dell'artista di cui il nostro
tempo ha bisogno: né dogmatico, né insignificante”
(Roland Barthes, febbraio 1980)
Nei film
di Michelangelo Antonioni ci sono pochissime parole: a parlare sono le
immagini.
Un
esordio del genere, in un testo come questo, rischia di far rabbrividire per la
presunta banalità. Ma non è così: l’affermazione è infatti tanto più vera
quanto più appare frutto di uno scontato intellettualismo, perché l’assenza di
parole invita proprio a gettare via ogni pretenziosa interpretazione
intellettual-salottiera per lasciare il posto a un altro modo di vedere e
leggere prima il film, e poi il mondo intero.
Qui tutto esplode, come nella nota scena finale di Zabriskie Point, e il nostro universo intero, fatto di miti pop
consunti e consumistici, visioni preconfezionate e idee a buon mercato, va fortunatamente in mille pezzi, facendosi
simile a una scompigliata visione alla Pollock. Restano colori, immagini, silenzi
e volti: insomma, nient’altro che una profondissima bellezza.
Lungi
dall’esaltare qualsiasi forma di edonismo, i film di Antonioni hanno appunto
pochissime parole: ma sono tutte necessarie e perfette. E tanto più di bellezza
si può parlare, unita a profonda sensualità e intelligente ironia, se l’attrice
protagonista intorno a cui ruota il racconto del film è la grandissima Monica
Vitti: un volto capace di trasfigurare ogni visione stereotipata del femminile,
di andare oltre, e guardare dentro, alle profondità infinite dell’anima e dei
suoi tormenti.
Questa
mostra è dedicata alla memoria del grande maestro del cinema italiano
Michelangelo Antonioni. L’attenzione si concentra in modo particolare sui film La Notte (1961), L’Avventura (1960), e L’Eclisse
(1962), noti al pubblico appunto come “trilogia esistenziale” o “dell’incomunicabilità”
che si completa poi con “Il Deserto Rosso”
del 1964. I film, che costituiscono una delle pagine forse più intense e ricche
di senso della storia del cinema del nostro paese, si concentrano in modo
particolare sul tema della difficoltà dei rapporti umani nella nostra epoca,
sull’incomunicabilità, sulle tensioni interne alle relazioni di coppia. Una
particolare attenzione è dedicata ai personaggi femminili: in tutti e tre i film un ruolo fondamentale è,
come è noto, affidato al genio interpretativo di Monica Vitti.
Per
sviluppare questo progetto sono stati coinvolti tre artisti che lavorano con
linguaggi espressivi tra loro differenti, ma che vertono in modo particolare sulla
dimensione installativa e scultorea. Ogni artista ha lavorato su un singolo
film, cercando di coglierne e interpretarne il messaggio artistico e di
pensiero, per dare vita ad un lavoro autonomo, nuovo per linguaggio e contenuto,
ma capace di porsi in dialogo sia con le opere di Antonioni, sia con gli altri
lavori in mostra.
Dato che
ogni artista occupa una sala della galleria, il progetto è alla fine più simile
ad una triplice personale che ad una vera e propria mostra collettiva.
Elizabeth
Aro (Buenos Aires, 1961, vive e lavora ad Arona) presenta due installazioni pensate
e realizzate a partire dal film La Notte;
Claudia Maina (Milano, 1976) ha sviluppato un percorso espositivo su L’Eclisse; I Santissimi (al secolo Sara
Renzetti e Antonello Serra, nati entrambi a Cagliari, dove vivono e lavorano,
nel 1978) si sono invece concentrati su L’Avventura.
Ogni
artista ha dato vita all’interpretazione di uno dei tre film di Antonioni per
una naturale affinità con il proprio lavoro, in un gioco sottile gioco di
rimandi per cui il film diventa la chiave interpretativa del lavoro, e
viceversa. I progetti sono stati pensati e realizzati concentrandosi su
specifiche scene dei film considerate essenziali, oppure cercando di cogliere il
senso generale e più profondo dell’opera del maestro di Ferrara.
Il
progetto espositivo è nato per me spontaneamente, dal vivo interesse suscitato
dai film in oggetto del lavoro, ma anche e soprattutto per il senso
particolarmente attuale e profondo che le tematiche affrontate da Antonioni
hanno per noi oggi.
Meno
facile, anzi, decisamente più complessa e a tratti tormentata, è stato invece
il lavoro concreto di realizzazione del progetto: la selezione degli artisti,
il loro processo di conoscenza del materiale filmico, lo studio, le discussioni
sulle tematiche e sui lavori che meglio le avrebbero espresse, si sono rivelate
una vera avventura, parafrasando il titolo del film, intensa dal punto di vista
intellettuale e forse anche emotivo.
Una nota
curiosa: più volte, nel corso della lavorazione, alcuni tra gli artisti coinvolti
mi hanno manifestato un senso di profonda e curiosa meraviglia: perché il film
su cui dovevano lavorare non parlava loro soltanto appunto di lavoro, in quanto
ottime artiste quali sono, nell’ambito della loro ricerca, ma pareva rivolgersi
a loro personalmente, a livello di vita e storia personale.
All’ingresso
della galleria il pubblico è accolto da un lavoro di grandi dimensioni di
Elizabeth Aro. Si tratta di un albero di stoffa, cucito sapientemente in
morbido broccato bianco. L’albero appare reggersi con difficoltà, aggrappato ad
un’impalcatura di legno, simile al ponteggio di una casa in ristrutturazione.
Il lavoro si ispira alla scena finale del film La Notte, in cui Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau si ritrovano
all’alba a fare i conti con se stessi e la propria storia di coppia, seduti ai
piedi appunto di un albero. Ma l’albero è anche il simbolo di una storia che
cresce e sopravvive, bianca e pura come il latte, ma tanto fragile che per
andare avanti deve essere puntellata, appoggiarsi a una struttura che insieme
la sorregge e la opprime: così come l’amore spontaneo tra due persone a volte è
obbligato da regole ad esso esterne e imposte a rientrare in canoni
prestabiliti, comportamenti sociali che ne distruggono lo spirito profondo pur
consentendo, come puntelli di una struttura architettonica claudicante, di
restare unito a ciò che altrimenti si separerebbe, trovando forse altre, nuove
e più libere strade.
All’interno
della galleria, nella prima sala, Aro continua la sua riflessione con una serie
di lavori diversi, tra cui spiccano una serie di quadri letteralmente incisi e
scolpiti nel vetro che riportano una frase tratta dal film, pronunciata da un
amico della coppia in una delle scene iniziali: “è davvero incredibile come non
si ha più voglia di fingere a un certo momento”.
La frase
è terribile e profonda, austera e secca nella sua semplicità (da notare la
scelta di Antonioni/Guerra a non usare la forma congiuntiva del verbo, a
sottolineare l’implacabilità della scelta, la reale e concreta impossibilità di
fingere). Le parole scolpite nel vetro non potrebbero reggere, sono terribili,
ma ancora una volta estremamente fragili. Reggono soltanto perché una cornice
di legno le tiene insieme, in modo insieme tragico e poetico: così come alle
volte i matrimoni, i legami, reggono perché a reggerli è, letteralmente, la
cornice (vedi famiglia, figli, società e convenzioni di vario tipo), e non un
contenuto che stia in piedi da sé. Nella sala accanto, il percorso espositivo
prosegue con i lavori di Claudia Maina, dedicati a L’Eclisse. Il film narra la storia di un giovane amore, tra una incontenibile
Monica Vitti e un giovane Alain Delon. I due incrociano le loro vite, flirtano,
ma non si coinvolgono mai realmente l’uno con l’altro. Ciò che loro sfugge è il
vero incontro profondo: come il sole e la luna, maschile e femminile si
guardano, si oscurano a vicenda, stanno a distanza e, per natura o per cultura,
si guardano un momento e poi spariscono, come ombre.
Il lavoro
di Maina si addice particolarmente a questo tipo di sentimenti e riflessioni.
Nelle sue sculture/installazioni fatte di bicchieri ossessivamente accastellati
l’uno sull’altro, abitate da omini gracili come ombre, tutti uguali e tutti
prigionieri di un identico destino di solitudine e isolamento, senza
redenzione, il vetro fa da spartiacque invalicabile, indice di una profonda
tensione emotiva ed estetica: insieme esposizione allo sguardo di tutti e
separazione insormontabile ad ogni reale contatto.
All’inizio
del percorso espositivo a lei dedicato Maina presenta alcune sculture di
piccole dimensioni, che conducono lo spettatore via via, verso un lavoro più
grande, che evoca alcune scene salienti del film. La Vitti e Delon spesso, in
un romantico ma significativo gioco di amanti, si baciano per finta attraverso
la lente di una porta, le labbra separate da un insuperabile vetro, sperimentando
l’anelito al contatto intimo (il bacio) e insieme la separazione (il vetro): così
le figurine prigioniere dei bicchieri, che abitano le sculture in mostra,
paiono creaturine chiuse in magiche storte alchemiche, insieme pronte a
sottrarsi a ogni autentico contatto, ma chissà , forse anche interiormente
pronte a un qualche tipo di misteriosa trasformazione di sé, tanto più profonda
e impegnativa, quanto nascosta allo sguardo, e tuttavia, forse, preludio di una
più felice svolta.
Al piano
superiore la mostra si conclude con un lavoro particolarmente impegnativo del
duo I Santissimi, chiamati a interpretare il film L’Avventura.
Il film,
come è noto, racconta di un triangolo amoroso tra Monica Vitti, Gabriele
Ferzetti e Lea Massari. Il personaggio interpretato dalla Massari a un certo
punto scompare, nel corso di una gita: morta? Fuggita oppure solo persa,
incapace di tornare sui suoi passi? L’amica, Monica Vitti, e il fidanzato,
Ferzetti, si mettono sulle sue tracce e, inesorabilmente, nonostante le
resistenze della Vitti, si innamorano e iniziano una relazione, destinata però
anch’essa a svanire nel nulla di una rete di condizionamenti sociali e
culturali. La donna scomparsa, di cui non si sa più nulla, è la chiave della
vicenda, proprio perché la sceneggiatura non offre alcun suggerimento su quanto
le sia accaduto e su quale circostanza si sia deciso il suo destino. La donna
scomparsa rappresenta forse l’anima fuggita? L’incontro, l’occasione perduta?
Non resta che riflettere, immaginando.
I
Santissimi hanno tradotto le suggestioni provenienti dal film e della vicenda
in esso narrata attraverso un’installazione di grandi dimensioni che
rappresenta due figure umane, un uomo e una donna, riprodotte in maniera
profondamente realistica e a grandezza naturale. Le due figure stanno l’una di
fronte all’altra, immerse in una inquietante semi oscurità, e racchiuse in
teche di vetro, come animali da osservare, anch’essi, come prima per i lavori
di Claudia Maina, senza poter allungare la mano e toccarsi, mai. Si guardano?
Respirano? Non possiamo saperlo, né immaginarlo. Le figure sembrano avvolte in
una nebbia sottile, che ne dissolve i contorni. Ciò che emerge dal lavoro è la
morte della vita senza incontro, senza mettersi in gioco, senza rischio. Sta a
noi, spettatori, guardare, toccare con mano, accarezzare le teche e far
apparire, come per incanto, le figure nascoste, le vite celate allo sguardo,
l’incontro mancato.
Qui, come
negli altri lavori in mostra, la speranza si nasconde dunque nel segreto di un
incontro vero, fatto di occhi, mani, nessuna finzione o azioni di circostanza,
solo la verità dello sguardo. Solo allora che si svela quella bellezza:
profonda, impalpabile, difficile da scorgere a volte, ma possibile, presente e
viva.
Quando il
vetro che separa e spezza i contatti si rompe, vanno in mille pezzi i ruoli
precostituiti del maschile e del femminile, già pronti per essere indossati come
vestiti dozzinali in un ipermercato, tutti uguali e uguali per tutti. Ma che
accade se si abbandonano i criteri borghesi a cui siamo abituati, i cliché, i
condizionamenti sociali? Resta ancora qualcosa o non resta nulla?
È bello
immaginare che, una volta spogliati delle intenzioni, convenzioni, giudizi e
pregiudizi, resta il deserto: ma se fosse questo il deserto intensamente
poetico di Zabriskie Point, punto
magico dell’incontro puro, nudo, senza finzioni né frontiere? Così vanno
all’aria tutti i puntelli, i silenzi, i progetti già pensati da altri al posto
nostro. Chissà forse ora siamo pronti per cogliere la sorpresa dell’incontro
con l’altro da noi. Un incontro vero, senza una parola di troppo.
Maria Cristina Strati
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