Nicolò Paoli - Weather
Silvy Bassanese Arte
Contemporanea, Biella, riconferma l’appuntamento annuale di attenzione ai
giovani artisti, inaugurando sabato 25 ottobre 2014, dalle ore 18 alle 21, la
mostra personale Weather dell’artista Nicolò Paoli, a cura di Viana Conti. Un
manifesto documenta la mostra con fotografie e testi critici.
La mostra, appositamente
ideata per gli spazi della galleria, attua, con fotografie, dipinti, disegni,
video- installazioni, un ribaltamento ambientale immaginario dei torrenti
montani nelle onde del mare, del folto del bosco nelle sabbie del deserto,
abitate da seducenti ed inquietanti cactus chiodati, da piante siliconate, dai
colori artificiali e acidi, visitate da insetti postatomici. Una mostra meteoropatica questa? Il titolo Weather indica il clima
e la temperatura dell’evento espositivo, ma anche la sua intima motivazione:
mettere in opera una condizione aerea, gassosa, vulcanica, geo e antropologica,
superficiale e abissale, ossigenata e inquinata al tempo stesso. È una
mostra-autoritratto dell’artista, riflesso nei frammenti di uno specchio
deformante. Ha un unico concept, ma si articola in quattro stanze mentalmente
visionarie: Stanza dei Tuffi, di Rorschach, dei Cactus, dei Fossili.
L’artista: residente a Genova, nato a Mirandola il 25 novembre 1980, Nicolò
Paoli è un corsaro romantico che naviga sulla cresta di adrenaliniche onde del
Web, un rabdomante che fa sgorgare la pioggia sul deserto, volare le nuvole in
galleria, per rianimare i suoi metal cactus, i suoi fiori inquinati dalle
consuetudini quotidiane, è un solitario che dialoga amabilmente con le mucche,
un aspirante glottologo che parla fluentemente russo a Genova e genovese in
Russia. Quando, nel suo atelier di Quinto, non inchioda cactus, non scatta
fotografie, non allestisce set, non prepara collage, non videoriprende Barbie
dai tacchi a spillo, non disegna nudi femminili, in fantasiose posizioni
erotiche, suona con la band dal nome, di suggestione ipnotico-ansiolitica,
Roypnol. Pittore, alchimista, videomaker, performer, strumentista, si cala,
senza difficoltà, in ognuno dei suoi alter ego. Nicolò
Paoli, come da adolescente era dedito ad una subcultura giovanile di
fumetti, animazione, icone, tatuaggi, piercing, scritte, pezze, stivali, jeans,
capelli lunghi, aggrovigliati effetto dread o corti, dal giallo al blu, da
adulto non esita a crearsi un ventaglio di alterità di cultura underground.
Come Dylan Dog gotico e rassicurante, può portare sulle spalle lunghe trecce
brune, indossare bermuda mimetici, ma, a differenza del protagonista del
fumetto horror, non è astemio
La sua opera, intessuta
dell’assurdità del reale e della credibilità dell’assurdo, è animata da
componenti surreali, fantascientifiche, fumettistiche. Il tempo, protagonista,
ricorre nelle due dimensioni cronologica e atmosferica. Le Metalphoto e i
Metalfossili di Nicolò Paoli, entrati in un processo matericamente e
virtualmente alchemico, accadono nel tempo, risentono delle condizioni
ambientali e meteo, fanno razza con le ossidazioni del supporto; come un
vegetale, sono fotosensibili. Le spine dei Cactus, queste piante primitive,
sono diventate, nelle opere di Nicolò Paoli, lunghi chiodi d’acciaio che,
ferendo la superficie della tela vergine, la trapassano violentemente. Il loro
fusto, cilindrico o globoso, ha un indubbio aspetto fallico, che assume,
nell’immaginario dell’autore, non senza una profonda autoironia, l’allusione a
certe ostentate ritualità della comunità virile. Le Metalphoto, di medie e
grandi dimensioni, delle Stanze dei Tuffi, delle Macchie di Rorschach, dei
Fossili, detengono il messaggio subliminale di una mostra in cui la presenza
del soggetto umano viene dissimulata, mascherata, travestita, spogliata,
mitizzata e smitizzata. Nelle mega fotografie digitali dei Tuffi, a effetto
metallico satinato, qualcuno, un essere, un oggetto, un ente, di sé lascia
labili tracce liquide, spruzzi d’acqua nell’aria, giochi di luce e ombra, per
poi scomparire al di sotto di una superficie piatta, immobile, specchiante,
come se nulla fosse accaduto. Eppure quello scintillio di gocce, quello
spostamento d’acqua parlano di un trapasso dal visibile all’invisibile, di un metaforico tuffo nel passato, di un’immersione nel tempo.
Tematica non meno significativa è quella delle sue Macchie di Rorschach:
fotografie digitali, in bianco e nero, rinvianti al noto test psicologico
proiettivo, teso a indagare dinamiche interpersonali, profili e nodi dell’io,
risvolti della creatività. Inedito, questo ciclo di lavoro recente, riferito in
particolare alle orchidee, è di impatto formale e psicologico coinvolgente ed
inquietante. Rientrano nel suo work in progress sull’identità e sulla
dissimulazione, scatti analogici, elaborati poi digitalmente, di grandi nudi
femminili o ritratti del volto (stupendo quello, in mostra, della madre Paola),
sottoposti a solarizzazione, a trattamenti di ossidazione, a interventi
gestuali con resine e vernici,
che li assimilano, in qualche modo, a ritrovamenti, fittizi, di fossili: ognuno
di questi lavori fotografici è un pezzo unico, irripetibile, in antitesi con la
riproducibilità connessa a tale mezzo. L’effetto-fossile si estende, nel suo
lavoro, dalla figura a resti ittici, di vegetazione o animali primitivi, non
esclusa la comparsa di un’archeologia portuale di gru ad acqua, a mano, a
vapore, tipica del porto di Genova: testimoni tutti di una remota vita
transitata, come in natura lo è dalla bio alla litosfera, così, in arte,
dall’immagine originaria ad un supporto che ne accolga le vestigia, tramite
un’alchimia segreta. Tali immagini in bianco e nero si contaminano con gli
affioramenti ruggine del fondo metallico, che non cessa di agire nel tempo,
maculando progressivamente la superficie. Cresce, in parallelo, un ciclo di
disegni a matita acquarellabile, che addensa e al tempo stesso sfrangia i
contorni del segno, lasciandoli colare verso il fondo della tela bianca: i
soggetti sono per lo più nudi che trovano ascendenze, per intensità
espressionista, negli abbandoni, nelle torsioni e contrazioni dei soggetti maschili
e femminili di Egon Schiele. Nell’opera di Nicolò Paoli, i diversi linguaggi
interagiscono, si contaminano, si scambiano i ruoli, entrano nella quarta
dimensione del tempo: il fermo immagine video-fotografico, le installazioni
ambientali, si animano sotto interventi gestuali di spray painting, di
proiezioni, di azioni esibitivo-performative, spesso sconfinanti sul piano
sonoro.
INFO:
Nicolò Paoli
WEATHER
Mostra a cura di Viana Conti
Inaugurazione sabato 25
ottobre 2014 ore 18
Durata - 25 ottobre 201 – 31
gennaio 2015
Orari della galleria da martedi a venerdi 16 – 19
Sabato, domenica e festivi su appuntamento.
Galleria Silvy Bassanese Arte Contemporanea
Via G. Galilei 45 13900 Biella Italy
Facebook Galleria Silvy Bassanese Arte Contemporanea
Nicolò
Paoli
Weather
Silvy
Bassanese Arte Contemporanea, Biella
a
cura di Viana Conti
Ho preso tempo, da quando ero un bambino,
un bambino dai capelli rasta naturali. Ho perso tempo. Nella mia vita
d’artista, caoticamente ordinata, sono regista unico del buono e del cattivo
tempo. Trovo credibile far piovere sul deserto per rianimare i miei metal
cactus, piangere e urinare sui miei fiori inquinati di consuetudini quotidiane,
dialogare con una mucca che mi riconosce e saluta. La contraccambio subito dipingendola
con un’aureola da santa, tra le corna. Voglio parlare undici lingue
contemporaneamente, scrivere un libro che chiunque, sotto i ponti o a
Copacabana, possa comprendere, voglio tuffarmi in un buco nero e riemergere
raggiante tra le onde della scogliera di Nervi, tra le rocce taglienti che
feriscono, leniscono, guariscono, le mie ferite. Voglio cantare, a voce
spiegata, ogni bicchiere di vodka che mi sono bevuto urlando, giocando con
Leone, rinascendo, strinato, dal centro della Terra. Weather è la mia pelle che
si abbronza e si sbronza, è il deposito di polveri su cui esplode ogni mio
istante, è quel remoto fossile su cui, un giorno, nel tempo, un terrestre o un
alieno, sorridendo pronunceranno, forse, il mio nome.
Nicolò Paoli
Premessa
Nicolò
Paoli, residente a Genova, nato a
Mirandola il 25 novembre 1980, è un artista che condivide l’anima di un
sognatore romantico e quella di un pirata postmodern: windsurfer di adrenaliniche onde del Web. Fatalmente attratto
dall’immagine e dal suono, non cessa di praticare, da sempre, la musica
dell’arte e l’arte della musica. Come Dylan Dog, reale e immaginario, gotico e rassicurante,
può portare sulle spalle lunghe trecce brune, viaggiare in mini, indossare
bermuda mimetici, ma, a differenza del protagonista del fumetto horror, non è
astemio. Soffre di qualche fobia, ma in compenso è meteoropatico e
ipocondriaco. Non nutre particolare interesse per il denaro, mentre Dylan si fa pagare in anticipo. Quando, nel suo atelier
di Quinto, non inchioda cactus, non scatta fotografie, non allestisce set, non
prepara collage, non videoriprende Barbie tacchi a spillo e guêpière, non disegna nudi femminili in
fantasiose posizioni erotiche, suona con la band dal nome, di suggestione
ipnotico-ansiolitica, Roypnol, con
sonorità sincretica grunge, heavy metal, punk rock.
Pittore, alchimista, videomaker,
performer, strumentista, si cala, senza difficoltà, a intermittenza o
simultaneamente, in ognuno dei suoi alter ego, non escluso quello del figlio
Leone e della moglie Barbara. La sua opera è intessuta dell’assurdità del reale
e della credibilità dell’assurdo. La sua identità, indecidibile quanto
inafferrabile, affonda le radici in un remix di figure fondamentali ed estreme,
al tempo stesso, da Gandhi al chitarrista Dimebag (un tipo di Marijuana
scadente usata in Texas) Darrell dei Pantera, per intenderci, ma che hanno
segnato anche la sua generazione. Una generazione Punk che ha adottato la parola d’ordine No future! dei Sex Pistols, parola che riecheggia ancora in un
diffuso ribellismo giovanile, dolente, insicuro, disincantato, scippato, dal
mondo del potere adulto, di prospettive concrete, compulsivamente segnato
dall’iperconsumismo di un erotismo mediatico, dall’istantaneismo cyborg del
tempo reale, dalla derealizzazione identitaria, dall’estetizzazione
dell’esistenza, ora globalmente galleggiante sui canali elettronici, ora
collassata e implosa nei buchi della rete. È un artista che, con il suo
interlocutore, usa disinvoltamente il pronome noi, raccogliendo la moltitudine
delle voci, dei suoni, delle icone, delle pulsioni, delle proiezioni, che gli
provengono dalle sue varie anime. D’altronde non era già Rimbaud che scriveva È falso dire: IO penso:
si dovrebbe dire io sono pensato. Car JE est un autre. Si le cuivre s'éveille
clairon, il n'y a rien de sa faute. Perché
IO è un altro – continua - Se
l'ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua. La cosa mi pare
ovvia: io assisto allo sbocciare del mio pensiero: lo guardo, lo ascolto: do un
colpo d'archetto: la sinfonia si agita nelle profondità, oppure salta con un
balzo sulla scena – da Une Saison en Enfer, Arthur Rimbaud. E per restare nel mondo
dell’arte, non è il poeta visuale genovese Martino Oberto che dichiara, nella
sua Anaphilosophia: Io non penso, spenso?
Oggi, le dilaganti
Interactive Touch Screen Tablet, i Social
network, non cessano di indurre questa generazione, anche minorenne, a
comunicare e interagire con chiunque,
prescindendo dal proprio corpo, divenuto ormai un’estensione
immateriale, uno strumento bionico, con l’esito di rendere fluida, multipla,
sfuggente, liquida, l’identità personale. Soggetti ormai esperti sul terreno
del simbolico, tentano di esercitare i loro alter ego anche fuori dalle reti,
pratica in cui l’artista risulta, da sempre, maestro.
Nicolò Paoli, come da
adolescente era dedito ad una subcultura giovanile di fumetti, animazione,
icone, tatuaggi, piercing, scritte, pezze, stivali, jeans, capelli lunghi,
aggrovigliati effetto dread o corti, dal giallo al blu, da adulto non esita,
visionariamente, a crearsi un ventaglio di alterità in cui identificarsi, di
provenienza, appartenenza, tessuto sociale, gruppo, cultura underground, svago, delocalizzati e trasversali, aderenti a un’ideologia anarco-pacifista, mai, tuttavia,
perdendo di vista i valori dell’autenticità. Uno dei suoi miti? Il suddetto
chitarrista statunitense heavy metal, anni
Ottanta, Dimebag o Diamond Darrell (Dallas 1966, Columbus 2004) assassinato da un suo
fan durante un concerto. Di lui sottoscrive il
celebre aforisma Heavy metal is what I’m
into. Shit that moves you. Shit that has heart and
soul! Heavy metal è ciò che sono nel mio intimo. Merda che ti muove. Merda con
cuore e anima.
Una
mostra meteoropatica Il titolo Weather indica
clima e temperatura di questo evento espositivo, ma anche la sua intima
motivazione: mettere in opera una condizione aerea, gassosa, vulcanica, geo e
antropologica, superficiale e abissale, ossigenata e inquinata al tempo stesso.
È una mostra-autoritratto dell’artista, riflesso nei frammenti di uno specchio
deformante. Il tempo, ineludibile protagonista, ricorre nelle
due dimensioni cronologica e atmosferica. La mostra ha un unico concept,
ma si articola in quattro stanze mentalmente visionarie: Stanza dei Tuffi, di Rorschach, dei Cactus, dei Fossili. Ogni spettatore potrà identificarsi, associandosi o
dissociandosi da uno spazio di autoriconoscimento.
Le Metalphoto
e i Metalfossili di Nicolò Paoli,
entrati in un processo matericamente e virtualmente alchemico, accadono nel
tempo, risentono delle condizioni ambientali e meteo, fanno razza con le
ossidazioni del supporto; come un vegetale, sono fotosensibili, mutano
impercettibilmente e dialogano con le diverse prospettive e aspettative di chi
guarda. Sono opere leggibili su un terreno instabile,
di impermanenza materico-percettivo-emozionale.
Sulle pendici di Monte Moro, Quartiere
Azzurro, a Genova, vegeta e fiorisce, naturalmente, un lussureggiante universo
di ulivi, alberi tropicali, ninfee, rampicanti, fiori esotici, erbe aromatiche,
basilico: è il giardino dei Paoli. Al primo piano dello stabile si espande però
un altro giardino, l’atelier di Nicolò Paoli, che sembra scaturito
dall’immaginario di Tim Burton ed accudito da Edward Mani di forbice: lì crescono e proliferano inverosimili
cactus chiodati, lì fioriscono piante siliconate, abitate da insetti
postatomici, dai colori artificiali e acidi. Non è inverosimile che dal suo
immaginario scaturisca anche la savana africana, delineando, sulle sue tele
bianche, tra un baobab e un’acacia, le sagome nere, immobilizzate, di zebre al
galoppo, leoni in caccia, rinoceronti all'attacco, caimani sonnolenti,
ippopotami a mollo, giraffe di vedetta. I suoi cactus, rigogliosi e prolifici,
a giudicare dai mini e maxi globi che si riproducono dal corpo centrale, non
sono usciti da una foresta tropicale, ma da un laboratorio da metalmeccanico. Le spine di queste
piante primitive, con potenzialità allucinogene, sono diventate, nelle opere di
Nicolò Paoli, lunghi chiodi d’acciaio che, ferendo la superficie della tela
vergine, la trapassano violentemente. Il loro fusto, cilindrico o globoso, ha
un indubbio aspetto fallico, che assume, nell’immaginario dell’autore, non
senza una profonda autoironia, l’allusione a certe ostentate ritualità della
comunità virile. La sua chiodata Cactus
Passion trova anche una colorazione dark nella loro fioritura notturna,
frequente in alcune specie, nella loro impollinazione da inquietanti chirotteri
e lepidotteri come i pipistrelli e le falene. Irrinunciabile il riferimento, in
campo artistico, con i dovuti distinguo di ordine storico-critico, alle foreste
di chiodi di Günther Ücker, esponente tedesco del Gruppo Zero.
Le Metalphoto, di medie e
grandi dimensioni, delle Stanze dei
Tuffi, delle Macchie di Rorschach, dei Fossili, detengono il messaggio
subliminale di una mostra in cui la presenza del soggetto umano viene
dissimulata, mascherata, travestita, spogliata, mitizzata e smitizzata. Nelle
mega fotografie digitali dei Tuffi, a
effetto metallico satinato, qualcuno, un essere, un oggetto, un ente, di sé
lascia labili tracce liquide, spruzzi d’acqua nell’aria, giochi di luce e
ombra, per poi scomparire al di sotto di una superficie piatta, immobile,
specchiante, come se nulla fosse accaduto. Eppure quello scintillio di gocce,
quello spostamento d’acqua parlano di un trapasso dal visibile all’invisibile,
di un volo nel vuoto, in picchiata, senza paracadute, di
un metaforico tuffo nel passato, di un’immersione nel tempo. Tematica
non meno significativa è quella delle sue Macchie di Rorschach:
fotografie digitali, in bianco e nero, rinvianti al noto test psicologico
proiettivo, teso a indagare dinamiche interpersonali, profili e nodi dell’io,
risvolti della creatività. Inedito, questo ciclo di lavoro recente, riferito in
particolare alle orchidee, è di impatto formale e psicologico coinvolgente ed
inquietante, alla luce della loro morfologia, maculatura, presenza di affinità
genetiche, messa in atto di mimetismi sessuali, ibridismi. L’orchis (dal greco oρχις=testicolo, per via dei suoi rizotuberi accoppiati) seducente
fiore di natura polimorfa, dalle caratteristiche, talvolta, epifite e
saprofite, riunisce, in un unico corpo colonnare,
organi maschili e femminili, si può riprodurre
sessualmente e asessualmente, diffonde odori attrattivi. Un soggetto quindi
che, nella sua struttura alata di petali, sepali, labello e sperone, nelle sue
strategie simulative, non manca di stimolare a livello formale, strutturale e
comportamentale, l’immaginario di un artista, di per sé, già incline alla multidimensionalità dell’io. Rientrano
nel suo work in progress
sull’identità e sulla dissimulazione, scatti analogici, elaborati poi
digitalmente, di grandi nudi femminili o ritratti del volto, sottoposti a
solarizzazione, a trattamenti di ossidazione, a interventi gestuali con resine
e vernici, che li assimilano, in qualche modo, a ritrovamenti, fittizi, di
fossili: ognuno di questi lavori fotografici è un pezzo unico, irripetibile, in
antitesi con la riproducibilità connessa a tale mezzo. L’effetto-fossile si
estende, nel suo lavoro, dalla figura a resti ittici, di vegetazione o animali
primitivi, non esclusa la comparsa di un’archeologia portuale di gru ad acqua,
a mano, a vapore, tipica del porto di Genova: testimoni tutti di una remota
vita transitata, come in natura lo è dalla bio alla litosfera, così, in arte,
dall’immagine originaria ad un supporto che ne accolga le vestigia, tramite
un’alchimia segreta. Tali immagini in bianco e nero si contaminano con gli
affioramenti ruggine del fondo metallico, che non cessa di agire nel tempo,
maculando progressivamente la superficie. Cresce, in parallelo, un ciclo di
disegni a matita acquarellabile, che addensa e al tempo stesso sfrangia i
contorni del segno, lasciandoli colare verso il fondo della tela bianca: i soggetti sono per lo
più nudi che trovano ascendenze, per intensità espressionista, negli abbandoni, nelle torsioni e
contrazioni dei soggetti maschili e femminili di Egon Schiele.
Nell’opera di Nicolò Paoli, i
diversi linguaggi interagiscono, si contaminano, si scambiano i ruoli, entrano
nella quarta dimensione del tempo: il fermo immagine video-fotografico, le
installazioni ambientali, si animano sotto interventi gestuali di spray painting, di proiezioni, di
azioni esibitivo-performative, spesso
sconfinanti sul piano sonoro.
Viana Conti