Francesca Manetta è una artista di grande livello. Intelligente, poliedrica e dotata di capacità espressive fuori dal comune. Ora in mostra a Benevento sotto l'attenta guida di Silvia Bottani. Da vedere!!!
FRANCESCA MANETTA
PLAYING DON CHISCIOTTE
a cura di Silvia
Bottani
Numen Arti
Contemporanee – Benevento
Dal 28 aprile al 30 giugno 2012 Numen
Arti Contemporanee è lieta di presentare la personale di Francesca Manetta Playing
Don Chisciotte, che comprende venti opere
fotografiche e tre installazioni inedite.
L'esposizione, a cura di Silvia
Bottani, è una riflessione sul testo di Miguel Cervantes, autore tra i più
importanti della letteratura mondiale e considerato il padre del romanzo
moderno. Manetta, attraverso la serie di nuove fotografie, prosegue
coerentemente il suo percorso di analisi delle figure letterarie e del mito,
perno centrale della sua riflessione artistica. La fotografia e l'installazione
si attestano come i media prediletti dall'artista, che anche in occasione di
questa nuova personale propone un lavoro articolato tra immagine fotografica e
oggetto installato.
Dopo Ofelia e Cappuccetto Rosso,
passando per i fantasmi di Pelléas et Mélisande e Odile e Odette,
l'artista approda all'Hidalgo della Mancha, proprio in occasione della mostra
beneventana. E forse è tutt'altro casuale il legame dell'universo di Cervantes
con il territorio sannita, se si pensa al lavoro che Mimmo Paladino realizza
proprio su queste colline aride e che richiamano alcuni scorci, certe luci
taglienti, alcuni scenari iberici più metafisici, dove l'artista ha scelto di
ambientare la sua rilettura filmica del Don Chisciotte.
Il lavoro di Manetta conferma la
dimensione metaletteraria come il proprio naturale territorio di indagine, un
orizzonte di possibilità aperto nel quale muoversi seguendo libere ma rigorose
coordinate. Difficile pensare a un libro che meglio si presti allo
sconfinamento, alla ricomposizione
e al gioco ludolinguistico, così come difficile incontrare personaggi
così totalmente carichi di verità – nella loro fiction – da scavalcare il tempo, lo spazio e il limite
delle pagine cartacee. Nasce così Playing Don Chisciotte, una variante generata dalle infinite storie
racchiuse nel testo di Cervantes, uno dei mondi possibili dove il cavaliere
ancora cavalca e si perde tra sé stesso e il suo stesso sogno. Un sogno di cui
siamo spettatori e, forse, attori. Senza essercene accorti.
Milano, aprile 2012
Note biografiche
Francesca Manetta nasce nel 1979 in provincia di Bergamo. Dopo la laurea
in scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera si specializza presso
l’Ecole Internationale Jacques Lecoq di Parigi. Oltre all'attività espositiva,
è stata vincitrice del primo premio al XII Premio di Arti Visive Paolo
Parati (Vittuone)
nel 2010, vincitrice nel 2009 della Menzione Speciale della giuria Next Generation Premio Patrizia
Barlettani, Galleria
San Lorenzo (Milano), ed è tra i finalisti del premio Up nea Fabula 2012 – Fabbrica Borroni (Milano).
Francesca Manetta
Playing Don Chisciotte
Numen Arti Contemporanee di
Giuliana Ippolito
Vico Noce, 20 82100 Benevento
orari: da martedi a venerdi
dalle 10.00 alle 13.00 e su appuntamento
Info cell: 3387503300
Tel. 338 7503300
Tel. 338 7503300
http://www.numen.it
in anteprima il testo di Silvia Bottani
Don Chisciotte, sognato da Borges.
“Dunque
siamo profondamente influenzati dai libri che non abbiamo letto, che non
abbiamo avuto il tempo di leggere”
U.
Eco, Non sperate di liberarvi dai libri
Per
spazzare via ogni dubbio sin dalla partenza, premetto di non aver letto per
intero il Don Chisciotte. Cosa che
giustamente farà storcere il naso a chi si appresta a queste brevi riflessioni.
Avendo la pazienza - o la fiducia - di proseguire nel testo, cerco di
circoscrivere il territorio in cui ho intenzione di muovermi: il El
ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, l'opera di Miguel de Cervantes, pubblicato all'alba del 1600, è
difatti un organismo, uno di quegli oggetti che arrivano al mondo come creature
e come esse sviluppano un proprio percorso di vita nel tempo, dischiudendosi
come un giardino segreto e parallelo al mondo ordinario da noi conosciuto.
Avvicinarsi
a Don Chisciotte incute un certo timore, sia per la mole imponente del volume,
sia per la letteratura che ad esso è inscindibilmente correlata. Leggerlo è
come leggere la Bibbia, i Veda, Guerra e Pace, la Divina Commedia. Ovvio che sia possibile - e auspicabile – ma non
dimentichiamo che per la loro stessa natura (e tralascio la dimensione di
verità rivelata che attiene ai testi sacri sopra citati), queste opere si
dispongono piuttosto a essere consultate, frammentate, i loro paragrafi
estrapolati dal lettore comune, i contenuti esegesizzati più che fruiti nella
dimensione che invece appartiene naturalmente al romanzo. Apprestandomi quindi
alla lettura del capolavoro di Cervantes, mi sono tornate alla mente le parole
di Umberto Eco nella sua conversazione con Jean-Claude Carriere dal titolo Non
sperate di liberarvi dai libri. Nel
dialogo due autori, entrambi bibliofili, dedicano un intero capitolo ai libri
non letti, quelli di cui però ci si forma un'opinione. Eco sostiene la teoria
di Pierre Bayard, ossia ciò che vive nei testi classici si infonde nel lettore
attraverso le opinioni altrui, la critica letteraria, ciò che circonda il testo
stesso, anche se egli mai ne ha fatta esperienza diretta di lettura. Questa
idea mi ha accompagnato, maneggiando il Chisciotte, e mi ha permesso di saltare
tra le pagine, muovendomi in avanti e indietro tra i capitoli, incurante della
progressione narrativa e temporale, con la disinvoltura di chi dimentica il
timore reverenziale per i maestri e i capolavori. La scelta quindi è stata
quella di approcciare il volume di Cervantes come un'opera d'arte, un sistema,
entrandoci in relazione libera e facendosi volontariamente influenzare dalla
letteratura nata successivamente sulle gesta del cavaliere errante.
In
questo passeggiare ondivago tra le pagine, sono riaffiorati sbiaditi ricordi
scolastici e sono germogliati insospettabili collegamenti cinematografici.
Visioni western di Sergio Leone si sono intrecciate e vacuità da cinema
giapponese, ballate oscure di Nick Cave si sono liquefatte nel ritmo asciutto e
spietato dei suoni delle campane di Hemingway, i paesaggi del Fortore e i landscapes arcaici del territorio sannita sovrapposti alle terre
argillose, arse e rosse della zona iberica, percorsa in viaggi di gioventù con
treni locali carichi di bestie e contadini, più simili al ronzino dell'hidalgo
che a un potente mezzo meccanico figlio della modernità. Ho assaporato l'architettura
del romanzo cavalleresco che regge l'impianto del libro, intuito il tempo che
circondava la nascita di quelle lettere, e talvolta interrogata su
quell'uomo realmente
esistito che si intravede nell'ombra di Chisciotte, il Cervantes autore che si
cela dietro la giacomettiana silhouette del suo cavaliere errante.
In
questa esplosione di reminiscenze vere o fittizie, di rimandi e collegamenti,
ho ritrovato anche il ciclo di Francesca Manetta. Il lavoro di Manetta da tempo
è incentrato sulla metanarrazione: partendo da alcune figure della cultura
occidentale, l'artista elabora un percorso che devia dalla storia originale e
produce una versione parallela, un alterego dell'oggetto di partenza. Con Odile
e Odette, i cigni alpha e omega del Lago, Manetta mette in atto un transfert e gli ridà vita, lasciandoli perduti in un bosco. Da
Pelleas e Melisande perviene a una fantasmagoria, la traccia di ectoplasmi
catturati da una fotografia medianica; di Ofelia, la revenant, mette in scena l'eterno suicidio e soprattutto
l'eterno fare dono di sé allo sguardo dello spettatore-amante, inchiodato alla
visione della sua morte; Cappuccetto Rosso diventa una bambina sporca di more e
preda annunciata del Lupo, un lupo che rimanda al Lewis – Carroll fotografo,
amante di fanciulle in fiore. E ancora la Ballerina e il Soldatino di Piombo in
attesa del compimento del loro amore, il Principe Ranocchio quasi imbalsamato,
modello ideale per un gabinetto di zoologia fantastica, un Bianconiglio
trafitto e inchiodato come farfalla da collezione, perfino il Santo Graal e una
manciata di chiodi sacri. E chissà allora se non ci sarà poi spazio per Alice,
per Macbeth, per Giona e la sua Balena o per L'Orlando senza senno. Manetta si
è introdotta in un labirinto degli specchi da cui è impossibile uscire, senza
infrangere tutte le superfici o sospendere il gioco. Questo perché ogni storia
ne racchiude infinite altre, così come ridotte sono le matrici da cui tutte si
originano ma senza limite le possibili derivazioni, e sempre è in agguato la
spaventosa scoperta che la storia stia raccontando sé stessa, conchiudendosi in
una favolosa e sinistra misé en abyme.
Il
Don Chisciotte, per ragioni occulte, emerge come oggetto di indagine del lavoro
di Manetta proprio ridosso della mostra di Benevento, città che sembra celare
un recondito legame con il testo di Cervantes, scelto anche da Mimmo Paladino
per il suo film Quijote girato
proprio in queste terre. Anch'esso diventa uno dei tasselli della letteratura
mutante di Francesca Manetta, e non può che tradursi in un lavoro
ludolinguistico. Il testo viene manipolato, come in un rebus o una sciarada,
sostituite le lettere, traslitterati gli scenari. Il Don Chisciotte di Manetta
è uno dei donchisciotti possibili, Ronzinante una variabile X del cavallo del
romanzo, Dulcinea una proiezione della donna angelicata sognata dal Cavaliere.
E Sancho Panza scompare, dissolto nella polvere dei secoli che separano
l'originale dalla sua variazione.
Se
vogliamo pensarla in termini filosofici, del romanzo rimane la donchisciottità, scomodando Wittgenstein, e come scrive Borges nella
sua introduzione al libro: “L'immagine dell'hidalgo e del suo scudiero e
delle sue sconfitte ridicole è divenuta una parte indistruttibile e preziosa
della memoria umana, a somiglianza dell'Ulisse omerico o dell'Ulisse
dell'Inferno. Chiuso il libro, il testo continua a crescere e a ramificarsi
nella coscienza del lettore. Questa altra vita è la vera vita del libro”. (1). Questa altra vita del romanzo è quella
incarnata nel lavoro di Manetta.
Accanto
agli scatti, si collocano delle teche che testimoniano la realtà di queste
entità fittizie che animano il romanzo, oggetti che Manetta compone e dissemina
come reliquiari laici a testimoniare la presenza di queste figure che
compongono il pantheon della nostra cultura occidentale, la memoria collettiva
incarnata nei “tipi” della letteratura. Sono reperti talvolta integri, talvolta
combusti, racchiusi in teche di plexiglass che ne preservano
l'incorruttibilità, nel tempo. Perché una volta incarnati nel regime del mondo
fisico, tutto è condannato alla consunzione, anche il giustacuore di Chisciotte
e la corona di fiori della sua amata. Sospeso tra fiction and facts, il lavoro di Manetta manipola la materia letteraria
e gli archetipi, confondendo volontariamente i piani. “Facciamo che io ero
Dulcinea. Non anzi, tu eri Dulcinea e io il mulino a vento. Facciamo che poi
c'era il mare e pioveva, un temporale terribile.”, sembra di sentire sussurrare dai protagonisti delle
fotografie dell'artista. Forse si tratta, infine, sempre di storie di spettri,
cosa che incontrerebbe la simpatia di Borges, p forse Don Chisciotte è morto è
questo è il sogno di qualcuno che lo sogna, e che domani lo trascriverà in uno
dei volumi della Biblioteca di Babele.
Playing
Don Chisciotte.
1)
Introduzione di Jorge
Luis Borges a Don Chisciotte della Mancia, di Miguel de Cervantes, Bur Rizzoli, 2012.
Silvia
Bottani aprile
2012
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