Un’esclusiva intervista alla designer Matali Crasset che uscirà sul
numero di Io Donna del 21 aprile, nel clou della Milano Design Week!
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à la révolution!
Spazi comunitari, oggetti destrutturati, colori
vivi. Da più vent’anni, il design di Matali
Crasset
sovverte tutti i cliché dell’abitare. A partire
dal comfort: “Rischia di farci prigionieri. Come
le case iperprotettive che escludono l’altro”
di Lia Ferrari, foto di Marcel Hartmann per Io
donna
Per
le foto si è divertita a fare l’extraterrestre taglia 42, ma il giorno dell’intervista
Matali Crasset è una donna francese che scruta il cielo. «Grigio. Non è triste?»
Dalla tenda viola messa lì a mascherare un letto sbuca un uomo con le
stampelle. «Francis, mio marito. È caduto sciando, ne avrà per tre mesi». Una
ragazzina alta e sottile sorride e scompare dietro la parete arancione.
Popline. Poi, Arto. Si infila una felpa rossa e blu, inforca gli occhiali,
afferra una busta con dentro una gallina di cioccolato. «Esco». Torna un minuto
dopo: «Non c’è nessuno. Posso avere una matita per disegnare?». La mamma spiega
che per i suoi nove anni è bravissimo. Un dono di famiglia? La monografia Matali
Crasset Works, edizioni
Rizzoli New York, viene presentata in Italia in questi giorni. Vent’anni di
progetti realizzati, design e architettura: spazi comunitari, hotel
sperimentali, salotti da comporre, una maison per i bambini che a casa hanno poco
spazio, letti per gli ospiti, una mostra al Beaubourg. E tanto azzurro, verde,
arancio, rosa. «Chi non usa i colori ha paura di vivere. Me lo sono sempre
detta».
Torniamo
al libro. In apertura, ringrazia la sua “piccola famiglia”, i suoi genitori,
suo fratello gemello Nit. Poi Philippe Starck…
E
Denis Santachiara. Sono stati i primi a darmi un lavoro. Da Denis a Milano ho
fatto scuola, mi ha insegnato che si possono creare oggetti impegnati. Grazie a
Starck, ho potuto coordinare il Design center di Thomson Multimedia: a ventotto
anni ero responsabile di 25 designer e di molti cosiddetti “dream products”,
oggetti che anticipano scenari futuri. Più che una sensibilità, a Starck devo
una formazione accelerata.
L’impressione
è che non sia amatissimo...
Se i
designer francesi possono guadagnarsi da vivere è merito suo. Ha mostrato che
il design ha un valore economico. Dovremmo tutti essergli grati.
Che
altro significa, per lei, fare design?
Dicono
che i miei sono progetti ludici. Anni fa ci restavo male. Poi la mia vicina di
casa, un’antropologa, mi ha fatto capire che il gioco serve a fare esperienza
del mondo, a non essere solo spettatori. Vorrei fosse lo stesso per le cose che
faccio.
Si
dice che i suoi spazi mettano in discussione la nostra “comfort zone”...
Il
comfort finisce per renderci prigionieri. Al divano che ti avvolge preferisco
quello che invita a cambiare postura e atteggiamento. Per lo stesso motivo
metto in discussione la nozione di casa-guscio: ci fa sentire iperprotetti ma
esclude l’altro, ci isola. Spazi come La Maison des Petits, un centro per bambini che ho
disegnato nel 19esimo Arrondissement, seguono un’altra logica: aiutare i
bambini a stare con gli altri, fare delle cose insieme. Marc Augé ha detto che
il design è antropologia applicata. Mi ci ritrovo perfettamente. Il mio lavoro è
interpretare i comportamenti, capirne la logica. E fare un passo indietro,
proporre un’alternativa, superare i cliché.
La
femminilità, per esempio?
(Sorride).
Si riferisce al mio aspetto? La prima volta che mi sono vista con il caschetto
ho detto “Ecco, questa sono io”. Ora che ho quarantasei anni, i capelli
cominciano a ingrigirsi, è un taglio pratico, non ho bisogno di tingermi. Una “scodella”
può essere nera, o bianca, o tutti e due.
Chi
compra i suoi oggetti è un anticonformista?
Più
che altro è animato dalla curiosità. Non è una questione di età, ma di apertura
e disponibilità alla scoperta.
Difficile
immaginare una persona agé su un divano fatto di pouf senza schienale…
In
realtà, chi ha vissuto i Settanta è più abituato di altri a sfidare le
convenzioni. A me viene naturale perché non ho ricevuto un’educazione borghese.
Sono cresciuta in campagna, in un villaggio di 80 abitanti. I miei erano
agricoltori.
“Farò
la designer”. Come hanno reagito?
Non
sapevano che mestiere fosse. Mio padre ne aveva sentito parlare in televisione.
Mia madre sperava diventassi istitutrice. Eppure quando ho superato il test di
ammissione all’Ensci, molto impegnativo, mi hanno dato fiducia. E appena è
stato chiaro che potevo vivere del mio lavoro hanno smesso di preoccuparsi.
Abita
con altre dieci famiglie in una vecchia fabbrica rimessa a nuovo a Belleville.
Vi conoscete tutti, i bambini giocano in cortile. Ha ricreato lo spirito della
piccola comunità…
Senza
le problematiche del piccolo villaggio... Non ci siamo scelti, ma tutti abbiamo
avuto la possibilità di decidere per
Belleville,
che è un quartiere popolare e multiculturale. Evidentemente abbiamo gli stessi
valori e ci piace la diversità.
Poche
donne scelgono di fare il suo lavoro. Perché, secondo lei?
Questo
non lo so, ma la storia è piena di donne che hanno dato forma al cambiamento.
Penso per esempio al Nobel per
la
pace Jane Addams, che a fine Ottocento, con le “Hull House”, ha restituito
dignitàagli immigrati. Ci sono settori dove
la
femminilità è un vantaggio. Per me in Thomson è stato così. Potevo ragionare
sulla tecnologia senza subire una fascinazione “idiota”. Riguardo a oggi, posso
prendermi il lusso enorme di fare questo lavoro perché c’è Francis, mio marito.
Un
po’ il suo manager: cura la comunicazione, i contratti, l’amministrazione
Sì,
siamo una squadra unita. Mi aiuta in tutto, e si prende molta cura dei bambini.
Chi
cucina?
Lui.
Ce l’ha nel sangue, è di Digione. Io, dello Champagne, sono una buona
forchetta. Anche in questo ci completiamo.
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