Pubblico in anteprima l'intervista designer Philippe Starck che troverete sul prossimo numero di Io Donna in edicola da sabato 7 aprile.
Se non fosse arrivata Justice,
sarei morto senza aver vissuto
“Prima che nascesse la mia ultima figlia
attraversavo
l’esistenza come un fantasma. Come smog,
come spray.
Con gli altri, più grandi, non sono mai
entrato in sintonia”
confessa Philippe Starck. Che di design non
vuole parlare.
Preferisce dire la sua sul destino del
mondo. E sul sesso
di Maria Laura Giovagnini, foto di Henry
Bourne per Io donna
Adesso c’è una
creazione che gli starebbe a cuore: un software per evitare che i padri abbiano
il braccio anchilosato dopo aver tenuto i bebè. A lui succede con la sua
Justice, dieci mesi di vivacità di cui va orgoglioso («È così intelligente!»)
come ogni papà del mondo. Ma, a differenza degli altri papà, il software
potrebbe inventarlo davvero, visto che si chiama Philippe Starck e che, dagli
spremiagrumi alle auto elettriche, si è misurato con tutto. Sempre con ironia,
la stessa con cui chiede al fotografo del servizio di queste pagine: «Vorrei
apparire una via di mezzo tra Tom Ford e Greta Garbo!».
È di ottimo
umore nel rifugio di Burano: una casa non grande sul canale, piena di oggetti by
Starck. «Facciamo l’intervista
in camera mia?» ed è già su per la scala a chiocciola che porta al secondo
piano, seguito dall’inseparabile moglie Jasmine, pronta a prendere appunti. Lo
sguardo cade prima sulle loro braccia (hanno sei tatuaggi, «un circolino per
ogni anno di matrimonio, la linea per la nascita di Justice»), poi scivola –
inevitabilmente - sul letto, altissimo: «L’ho studiato così per la veduta. E
per il sesso».
Iniziamo
dalle sue creazioni? Il Salone del Mobile si avvicina e lei sta per presentare
varie novità...
No.
No?
Ci sono
argomenti più interessanti. Il design avrà un futuro solo se andrà verso la
de-materializzazione. Un esempio calzante: i computer. All’inizio erano grandi
come valigie, ieri come beautycase, oggi come buste, domattina come carte di
credito, tra poco non saranno niente perché avremo una sorta di chip nel
corpo... Più il computer diventa ingegnoso, più scompare. Ogni cosa seguirà
un’identica strada. Gli ultimi designer saranno il personal trainer e il
dietologo, perché saremo noi stessi il prodotto.
“Less is
more”, insomma: di meno è di più.
Meglio: “more
with less”. Più deciderai di avere meno, più avrai. Il destino dei designer è
produrre servizi, non oggetti. Occorrono azioni, non prodotti.
Riflessioni
dettate dalla recessione?
Sappiamo da
tempo che la cultura occidentale sarebbe entrata in recessione e il centro del
mondo si sarebbe spostato: sono sorpreso nel vedere la sorpresa generale. Non
c’è crisi, c’è solo la naturale decrescita dell’Occidente. Tutto ha un ciclo
vitale, anche le civiltà. La mia generazione si è spesa per trovare risposte,
dall’energia all’eco-democrazia, e io ho partecipato. Il risultato non è
incoraggiante: noccioline. L’unica soluzione è una temporanea e positiva
decrescita. Purtroppo non ce l’abbiamo nel Dna, perché la nostra società è
basata sul progresso. Ma per i giovani quel che sembra un disastro è un
Eldorado:
tutto deve
essere reimpostato dalle fondamenta. Dobbiamo reinventare i valori della
prossima civiltà, che dovrà poggiare su una sorta di “povertà”.
Come
contribuirà alla rinascita?
Vorrei prendere
le distanze dalla materialità e focalizzarmi sull’azione. Sto progettando una
sorta di computer “organico” che metta in rapporto i disoccupati - milioni,
umiliati dal sentirsi inutili - e li trasformi in un think tank capace di
rispondere alle domande che l’epoca pone. Un mese fa ero in California al
T.E.D.
(conferenza che riunisce le migliori menti nel campo di tecnologia, spettacolo
e design, ndr) e un
israeliano, Lior Zoref, ha portato un toro sul palco, chiedendo ai presenti il
peso. Le risposte erano tutte sbagliate: la cifra esatta era la loro media. Che
intendo dire? Separati sbagliamo, ma c’è una saggezza collettiva. Ho battezzato
l’operazione Onion.
Onion,
come cipolla?
Un gioco di
parole con union: l’unione
fa la forza.
E la
bellezza? È ancora un valore?
Non so cosa sia
la bellezza in astratto, e non mi interessa: è un’idea borghese, volatile,
dipendente dalle diverse culture e dalle mode. Di sicuro non è un piacere per
gli occhi, bensì per il cervello, e gli occhi ne sono soltanto lo strumento.
Non puoi trovare “bello” qualcosa che sia stupido. Al T.E.D. c’era un avvocato
americano che
ha tenuto un fantastico discorso contro la pena di morte: benché fosse
“normale”, ho sentito che per le donne presenti era il più sexy della terra.
Ciò dimostra che l’intelligenza è seducente.
Parla come
un guru. La definizione “designer” ormai le andrà stretta...
Non mi sono mai
sentito un designer. Sono figlio d’un ingegnere aeronautico (l’aereo Starck
negli anni ’40 era il più elegante) e il lavoro mi ha scelto, non viceversa.
Forse sono stato debole, o non abbastanza sicuro
di me per fare
qualcosa di maggior interesse... Ecco perché ho trasformato questa occupazione
in qualcosa di significativo, di politico. Trent’anni fa andava bene
interrogarsi sulla bellezza di una lampada. Oggi abbiamo davanti sfide urgenti
di ordine politico, sociale, religioso, economico... Ai ragazzi dico: «Non
siate pigri e conformisti: indossate l’elmetto, andate a combattere».
Per
questo ha chiamato sua figlia Justice?
Esattamente.
Quando crei qualcosa - e un bambino è una creazione - deve iniziare subito a
essere utile per tutti: ogni volta che ci rivolgiamo a lei o ne parliamo,
evochiamo il concetto di giustizia. Uno dei più nobili.
Uno di quelli
che stanno scomparendo.
Per lei
che “utilità” ha la bambina?
È l’ultima
chance per connettermi alla vita. Sin da piccolo sono sempre stato “da qualche
altra parte”: perso nei sogni, nei progetti. Ho trascorso l’esistenza da
fantasma. Come smog, come uno spray, come una nuvola. Non ho assaporato la
quotidianità.
Eppure ha
già figli: Ara, Oa, K e Lago.
Sì, buoni e
intelligenti (sono bravo a far figli), ma non sono entrato in sintonia, sempre
“altrove”. Con Justice, una nuova occasione per avvicinarmi a carne, sudore,
lacrime, urla.
È diverso
essere padre a questa età?
Certo. Comunque
non è questione di età: la differenza viene dalla mia decisione di collegarmi
alla terra
prima di morire. Sarebbe strano se in paradiso qualcuno mi chiedesse: «Allora
come è stato vivere?», e io: «Mi spiace, non ne ho idea». Sembrerei uno
stupido.
Il ruolo
di Jasmine nel cambiamento?
Fondamentale.
Non è solo la donna della mia vita, è il contatto con l’esterno. Sono
autistico: non uso telefono, non parlo a nessuno.
Quindi
continuate a vivere in simbiosi, come raccontaste a Io donna nel 2010. O l’arrivo d’una
figlia ha cambiato gli equilibri?
Per niente.
Forse la situazione è ancor più simbiotica: eravamo una persona con due lati,
adesso siamo una persona con tre lati.
Neppure
il ruolo del sesso è cambiato?
No: è
fondamentale, specie per uno come me, incapace di esprimersi. Riesco a parlare
d’amore esclusivamente attraverso il sesso. Che, alla fin fine, è come la
creatività: nasce da un processo (all’apparenza) irrazionale.
Qual è
l’oggetto perfetto che nessuno ha ancora disegnato per i bambini?
Mmmmm... Forse
l’utopia. Ce n’era tanta, prima: era basilare per costruire se stessi. Chi
nasce ora, invece, non ha tracce per indirizzare sogni, ambizioni, desideri.
L’amore è
un lusso che ci possiamo permettere?
Indispensabile.
È quello che ci differenzia dagli animali: l’abbiamo reso una scienza, un’arte.
La materialità ha preso il suo posto, tanti preferiscono un’auto alla
fidanzata. Ma se scompariranno gli amanti romantici, retrocederemo di colpo a
quel che eravamo milioni d’anni fa.
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