di Emanuele Beluffi
Torna Kritika in una veste editoriale rinnovata: non più il libro nero in brossura di pregio su carta lucida a colori con numero impresso a fuoco sulla coperta, bensì un tabloid, bianco e nero su carta uso mano con disegni, foto e parole. Molto stoner come l’omonimo stile musicale: scabro fuori e abissale dentro. E’ una scelta editoriale ben precisa, non solo volta a enfatizzare le avventure della differenza, ma anche e soprattutto per dar forma e sostanza a un meccanismo di pensiero e a quell’approccio metateorico all’arte visiva che è la critica, cui non serve – almeno a casa nostra, qui, da noi, da Kritika – il paravento d’eccellenza delle corbellerie con carattere tipografico Garamond (e infatti usiamo il Bodoni).
L’italiano medio – e qui penso al dito medio che Maurizio Cattelan ha edificato di fronte a Piazza Affari a Milano – è generalmente incolto, voltagabbana e un po’ cialtrone e più che all’esercizio della critica è uso all’esercizio della comica. Si tratta di una scenario in cui è del tutto inutile lamentarsi dell’assenza di un Pasolini. Lo era prima, quando lui c’era, lo è di più adesso, quando al Pier Paolo s’è sostituito l’indignato speciale Saviano, mentre l’ottuagenario Umberto Eco si concede il lusso sul Corriere della Serva di mandare affanculo i lettori grazie ai quali ha potuto non lavorare per tutta una vita (Eco: così ho rivisto «Il nome della rosa». Ma salvatemi dai critici militanti, intervista di Paolo di Stefano, Corriere della Sera, 31 gennaio 2012).
A che serve l’opera d’arte? E, di riflesso, a che serve la critica? Se da un lato abbiamo un’iperproduzione di oggetti e soggetti d’arte (talvolta onesti e talaltra furbetti, in verità in menomissima parte degni ed eccellenti: per questo, piaccia o no, i vessilliferi dell’arte italica nel mondo sono Monica Bonvicini, Vanessa Beecroft, Rudolf Stingel, Maurizio Cattelan, Paola Pivi da un lato e Massimiliano Gioni e Francesco Bonami dall’altro e pochi altri da entrambi i lati), dall’altro lamentiamo – lamentano: io me ne chiamo fuori perché non c’ero e, se c’ero, dormivo – l’assenza di un pensiero critico. Nevvero: il problema è invece rappresentato da una scarsità di fruizione del suddetto. Non è nemmeno il pubblico, che manca: come già ebbi modo di dire due editoriali fa, è piuttosto l’educazione al gusto, che scarseggia. Con tutti i rischi che tale intraprendenza comporta: troppo vicini i ricordi delle masse da addomesticare al pensiero rivoluzionario, quale che ne fosse la specie. E – per fortuna – troppo vicino il monito di Karl Popper a proposito della fallacia del dogmatismo.
Ma non posso non giocare a quelli che se la cantano e se la suonano. Citerò una bella dichiarazione di Stefano Mazzoni, perché le seguenti parole contengono in nuce quella che è molto più di una semplice per quanto rispettabile dichiarazione d’intenti:
Lo scopo principale di questa ventura editorale è ancora la riappropriazione di uno spazio per il pensiero critico, privo dei vincoli cui era (ed è) costretto dalle altre pubblicazioni. Scrivere su Kritika significa rivendicare la propria libertà di fare critica nel senso più ampio del termine. E vuol dire, inoltre, accogliere la sfida di rivolgersi al lettore, non per proporre un punto di vista incapace di scuoterlo dal suo passivo adagiamento sui propri gusti e opinioni, ma per aprirgli gli occhi, sedurlo ed eventualmente scandalizzarlo. Nessuno ha la verità in tasca - e lungi da noi l'intento di illustrarne una via maestra. Ma preferiamo lasciare ad altri il piglio addomesticato alla neutralità, quell'atteggiamento di rinuncia che evita in partenza di formulare giudizi per non correre il rischio di esporsi.
Con Kritika ci si gioca la faccia. Ma è anche vero che solo chi non fa, di sicuro non sbaglia mai.
E poi scrivere su Kritika è terribilmente sexy.
Di là dal – e nonostante il – cui prodest? dell’arte e della critica, il tema monografico di questa Kritika è dunque incentrato sull’utilità dell’opera d’arte (Utilità e opera d’arte, appunto), un detournement concettuale che strizza l’occhio al celebre saggio di Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, ma senza con ciò stesso avanzare la pretesa (al quanto noiosa, considerati i fiumi d’inchiostro versati a riguardo) di ritrattarlo, nemmeno lateralmente. L’universo di discorso è più ristretto rispetto alla domanda “A che serve la cultura?”, in quanto limitato alla sfera delle arti visive e nella fattispecie dell’arte contemporanea nelle sue diverse declinazioni.
Ma Albert Einstein ce l’insegna, l’universo è in espansione. E l’astrofisico Stephen Hawking da par suo aggiunge che l’universo non è “uni” ma “pluri”, nel senso della pluralità di universi paralleli e di mondi possibili (come direbbe in quest’ultimo caso il filosofo Saul Kripke, ma qui mi fermo dall’esternarvi la segreta verità che ne consegue).
Quindi, dal momento che l’arte contemporanea è essenzialmente fedeltà al presente e, nelle sue affermazioni più nuove e interessanti, offre una visione del mondo inconfondibile e dirompente, perché non interrogarsi sul valore di questa dimensione filosofica, politica, sociale e critica che l’arte attribuisce alla nostra vita?
Ma avrà un valore, l’opera d’arte, a prescindere da quello prettamente economico? In fin del conto, come dice Jules Jerda Winnfield in Pulp Fiction:
«Non è neanche lo stesso campo da gioco, cazzo. Non è lo stesso fottuto campo da gioco, non è lo stesso campionato e non è nemmeno lo stesso sport!»
Aram Bartholl, Susan Philipsz, Christian Marclay, Wilhelm Sasnal, i primi artisti che mi vengono in mente: autori che per mezzo di differenti declinazioni esprimono una poetica geniale. Ma, onestamente, cazzo serve?
Questo nuovo numero di Kritika attraverserà dunque l’arte contemporanea a volo come una strega e starà nel mezzo del convegno notturno, il sabba delle lammie - e degli stregoni! - acculturat* su questo tempo devastato e vile, con scorribande intellettuali sui vari rivoli che si dipanano dal tema principale: l’arte relazionale (vero novum organon della modernità) e l'invenzione della collettività e della performatività creatrice (fotografia, social media e processi creativi), l’artista e il mercato (e qui mi ritorna in mente quella dichiarazione dell’onorevole Clemente Mastella, quando disse che lui al mercato finanziario preferiva quello rionale) e ciò che resta dell’arte come testimonianza e/o scoria, non solo del passato ma anche del nostro tempo presente e del suo intrinseco valore feticistico (arrieccoli, Marx e Benjamin!).
Ma, come affermava Gino De Dominicis, non esiste l’”arte” in quanto idea vagolante nel cielo Iperuranio: esistono invece le singole opere d’arte esposte nei musei e nelle gallerie e negli spazi aperti, dove l’artista, non creativo bensì creatore, lascia una traccia fisica del proprio colpo d’occhio preliminare sul mondo. Non in quanto intellettuale – l’artista non è, stricto sensu, un intellettuale –, ma certamente in quanto proprietario speciale di una visione del mondo che, come una cellula totipotente in grado di svilupparsi in un intero organismo, si universalizza parlando – anche – a noi di noi stessi in questo tempo presente, non disdegnando la possibilità di precorrere i tempi come si conviene ai genii di vaglia.
la copertina di Kritika disegnata da Giovanni Manzoni Piazzalunga |
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