ANIME PERDUTE – ANIME RITROVATE
a cura di Alberto D'Atanasio
OPERE di:
Marica Fasoli
Stefania Orru'
Roberta Serenari
Elisabetta Trevisan
Vernissage 31 gennaio 2014 ore 17.00
CERP - Centro Espositivo Rocca Paolina
Perugia - Piazza Italia 11
Testo critico:
Questa mostra è nata quasi per caso, più per esigenze curatoriali che per il raggiungimento di obiettivi artistico-estetici. È stato veloce come quando si assiste alla prova generale, quella prima del debutto, per una sinfonia. L’orchestra è lì nella cavea, il direttore è lì al centro non indossa il frac, è vestito normalmente, guarda gli orchestrali, i cantanti solisti e i coristi, illustra il proprio punto di vista sul contenuto e l'impostazione generale del componimento musicale. Nei leggii ci sono i fogli con le partiture e in quello del direttore, oltre alla bacchetta, c’è una matita che servirà per correggere le battute in relazione a come gli orchestrali eseguiranno il tema e le variazioni. Il tema è l’anima perduta e quella ritrovata, che in questo progetto vuole essere intesa e divenire oggetto di ispirazione non solo come essenza del Dio nell’uomo, ma anche come presenza dei simboli archetipi che danno vita e voce alla persona interiore.
L’anima è anche la parte più intima e profonda del nostro Io che contiene le passioni, le rabbie, i sentimenti più intensi e più importanti; una vera fucina delle emozioni.
L’anima come essenza e luogo dove eros e psiche, mente e cuore, si incontrano dando un senso al vissuto e vita al tempo presente.
L’anima come laboratorio magico dell’azione creativa dove si da immagine e forma all’immaginato, a ciò che non si può, talvolta, esprimere a parole.
L’anima è anche il concetto junghiano dell’Animus, cioè la parte del maschile che è nella donna, e dell’Anima, la parte del femminile che invece abita in ogni uomo.
L’anima come unione e scissione, intensa e sublime, tra persona e personaggio.
La creatività e l’arte rendono liberi e donano la capacità dei bisogni che esulano dalla sfera materiale.
Gli artisti sono talvolta persone per natura rivoluzionarie perché mal si adeguano a ciò che è regola imposta e predisposta da altri.
Gli artisti sono liberi e spesso inconsapevolmente pretendono di essere liberanti per quanti vogliono ancora provare ad emozionarsi e percepire sensazioni, passioni, voglia di vivere col cuore e con la ragione dei sentimenti. È così che ho voluto immaginare questa mostra, un tema, un direttore e quattro orchestrali, ma in effetti se è l’anima che si perde e si ritrova, allora, è anche vero, che ognuna di queste, straordinarie artiste, sono direttrici d’orchestra e allo stesso tempo orchestrali. Marica Fasoli, Stefania Orrù, Roberta Serenari, e Elisabetta Trevisan dirigono, con le loro opere, me, che cercherò di collocare quelle stesse opere al meglio perché la sinfonia sia ben interpretata e poi dirigono colori, forme, soggetti affinché poi nell’insieme si possa rivelare quel suono che non ha bisogno di tante parole ma solo di contemplazione e meditazione. Fasoli, Orrù, Serenari, e Trevisan hanno la prerogativa di creare immagini che hanno il sapore antico del mistero e come tale va svelato addentrandosi dentro la figura. Ogni opera è una sorta di percorso dove l’anima si perde e si ritrova.
Marica Fasoli ci fa perdere e ritrovare in un dialogo che attiene più agli esiti di ciò che potrei definire ascolto interiore o più semplicemente contemplazione. Gli abiti senza la persona che li ha indossati sono l’evidenza metafisica della presenza di un corpo che ha lasciato segno di sé in un involucro costruito dall’uomo. Percepiamo visivamente un abito, ma ciò che leggiamo è che l’infinitamente grande si è trasferito nell’infinitamente piccolo e pertanto non può avere volto; ogni soggetto di Marica Fasoli è essenza di chi l’ha indossato. L’involucro ha l’incanto di quell’energia che ha pervaso fin dall’inizio del viaggio quel corpo ed ora è lì nell’indiscutibilità della sua assenza, per sempre fissa in quell’immortalità che solo l’arte sa donare. Le scatole dipinte di Marica altro non sono che il meraviglioso universo in cui l’occhio esplora cose già viste, ma questi oggetti sapientemente ricostruiti con la tecnica a olio, che questa artista conosce in maniera scientifica avendo praticato per anni il sapiente mestiere del restauratore, permettono di recepire lo spazio stesso che il contenitore propone. L’oggetto diviene soggetto in virtù dell’emanazione che l’insieme suscita. quei dipinti che riproducono scatole e il loro contenuto permettono di fissare il tempo con quel meccanismo che si attiva esplorando cose consuete, semplici, che sfioriamo e guardiamo distrattamente ogni giorno. Se l’anima ha bisogno di un involucro per animarsi e manifestarsi allora in questo contesto Marica Fasoli ci indica quei connotati che sono mappa per ritrovare i ricordi e, tramite loro, lo specchio dove si riflette il nostro vero volto, quello che non ha tempo né conosce tempi. Il fare arte di Marica Fasoli permette che gli oggetti comuni diventino punti essenziali perché l’osservazione di un’opera acquisisca un valore esistenziale. In un mondo del mercantile effimero, le icone di quest’artista diventano vero e proprio paradosso. L’oggetto dimenticato, usato, banale nella sua riconoscibilità quotidiana, diviene emblema e simbolo. Il gioco del bimbo, la trina di un vestito da sposa, la massa rinfusa di bottoni dentro uno scomparto, la camicia che fa presumere la fisicità del corpo che la indossava, altro non sono che i connotati che ci permettono di riconoscerci nel tempo vissuto e in quello presente; Marica offre all’osservatore il senso vero delle cose che rendono questo passaggio terrestre meno anonimo. È come se lei rendesse figura le parole del grande poeta contemporaneo Roberto Lerici, che termina la poesia “Quest’amore” con questa frase: “prima che il nulla tutti ci divori che venga, venga presto il tempo in cui ci s’innamori”. Nel fare arte di Marica Fasoli, l’anima torna a richiamare l’immanenza, quasi che per contrasto e per armonia, lei eterea per antonomasia, non possa fare a meno della corporeità. E nell’alchimia del laboratorio quest’artista riproduce tessuti, la porosità di giunchi intrecciati e oggetti che nelle sue icone assurgono a reliquie di un tempo senza tempi. La metafisica perde la sua malinconia e ritrova una nuova musicalità, per queste sue opere consiglierei di farsi accompagnare dalle melodie dei brani: “Missing Words e Save a place for me” di Piers Faccini
Stefania Orrù ci fa perdere e ritrovare nella costruzione delle sue opere che sono manifestazione di un percorso in cui si percepisce inizio e fine. Lei pone la riflessione su quella rara situazione in cui l´artista esplicita la sua essenza nell´opera d´arte e questa ha la sua genesi e si sviluppa nei ricordi e nella dilatazione di questi nel presente. Ogni suo quadro nasce da un´attenta analisi delle sensazioni, delle emozioni e dei sentimenti che si evidenziano nei tratti del viso, negli sguardi, nei movimenti del corpo e nella gestualità. L´idea, in Stefania, nasce sempre da un’introspezione, il suo obiettivo è dar voce e forma a ciò che voce e forma può avere soltanto attraverso il lavoro dell´artista. È come dire che è l’anima ad essere figurata attraverso il suo fare immagine con pennelli, colori e ossidi. Lei raffigura il femminile come fosse l´unica chiave per accedere ad un universo che si apre solo a chi è capace di sentire o guardare non solo con i sensi. Per Modigliani gli occhi che, per volontà dichiarata, dipingeva raramente, erano l´unico accesso per arrivare all´anima dell´individuo e per dipingerla, e in Orrù gli occhi sono la porta perché la semplice osservazione si trasmuti in contemplazione, quasi che la figura ritratta riesca a contemplare colui che guarda e passa. Ciò che propone quest’artista non è fissare un’immagine in modo che diventi concetto astruso, o un monumento al tempo passato, o perché torni e resti alla memoria, la sua eccezionalità sta nel fissare un’emozione generata nell´attimo dell’incontro con l’opera affinché chi osserva abbia la consapevolezza di vivere un momento unico e irripetibile. Le espressioni dei suoi volti hanno la malinconia e talvolta la serietà di chi vive in un mondo incomprensibile che non regala comprensione. L´opera è solo un pretesto che deve liberarsi delle infrastrutture retoriche, per questo la materia dei suoi colori si veste di trasparenza e di luce che non è fisica ma mentale, cosmica, spirituale, la luce indefinibile dell’anima.
Ogni opera di Stefania Orrù è sintesi di un arrivo e di una nuova partenza. Sembra quasi che il tempo abbia corroso le sue immagini senza però intaccarne l’essenza che si rivela in sguardi penetranti, in pose elegantemente sinuose; è la nuova icona della veritas che in Orrù non ha bisogno di nudità, ogni suo quadro è come un canto dimenticato che quando lo si riascolta ci fa accorgere di essere ancora vitali. Per guardare queste sue opere consiglierei le suggestioni del brano “divenire” di Ludovico Einaudi.
Roberta Serenari ci fa perdere e ritrovare con la forza dell’evocazione. Ogni suo quadro è uno sguardo preciso e diretto negli antri dell’anima e se per i padri della psicologia l’animus era diviso in tre persone, quali il bimbo, l’uomo e il vecchio, allora potrei dire che la filosofia estetica che muove quest’artista è una sorta di ponte che permette all’osservatore di valicare le rive del presente e tornare ad esplorare quelle rive lasciate ieri, fino a percorrere il ponte e giungere a terre distanti che ricordiamo, per poi addentraci fino a quelle più remote che necessitano di impegno e memoria. Le immagini di Roberta sono metamorfosi di quei pensieri che si evocano con i ricordi. Le opere di quest’artista uniscono in maniera mirabile il surrealismo di Magritte e la metafisica di Savinio, è così che il tempo nello spazio magico del quadro si ferma e l’icona diventa varco dove perdersi per ritrovarsi. Ed è mirabile come la sua filosofia estetica sia suffragata armonicamente dalla tecnica pittorica, dal disegnato, dalla cura del particolare che concorre come un orchestrale a far sì che la partitura sia ben eseguita. L’opera è lì, sembra avvertirci, Roberta Serenari, “guardate e non abbiate paura di addentrarvi perché è in questa magica esplorazione che si ritroverà quel tempo magnifico rimasto ancora intatto prima che il tempo adulto lo avesse reso opaco”. Il linguaggio visivo non è soltanto dall’opera verso l’osservatore ma più che altro il contrario: non è l’opera che si espone all’osservatore ma è questi che guardando l’opera entra in essa ed espone se stesso a se medesimo. Non esiste utopia, nelle sue raffigurazioni, né irrealtà, esiste solo la voglia di sperare oltre il possibile, oltre la mera ed evidente realtà. In ogni suo dipinto è presente, nell’immagine complessiva o nel particolare della figura, il concetto di porta come varco verso dimensioni che appartengono alla sfera onirica, ma nelle sue figure l’universo onirico, il sogno, non sono effimeri, ma realtà che si realizzano nell’anima di chi guarda. Quando l’osservatore contempla l’opera di Roberta Serenari si trova come davanti a una mappa in cui può trovare la strada per ritrovarsi o per perdersi di nuovo i simboli che lei sapientemente rappresenta sono i quadranti e i punti cardinali servono perché la rotta, sia che ci si perda sia che ci si ritrovi, abbia comunque un senso. Roberta possiede una tecnica assoluta, confesso che mi sono perso a scovare la trama tra la pennellata che descrive velature, e quella che invece tinge zone più vaste. Ho seguito lo sfumato che rende eterea la massa e quello più cupo che rende l’oggetto prossimo ad uscire dal quadro. La Serenari è un’artista che sa suonare in maniera ottimale il suo strumento, per queste sue opere ho pensato a un brano poco conosciuto di Eugenio Finardi: “Una scala per la luna”.
Elisabetta Trevisan fa perdere e ritrovar l’anima con la freschezza di una donna che non ha risentito né del tempo e né dei tempi. Lei ha la freschezza e la spontaneità di chi ha la consapevolezza di essere diversa, per vocazione e condizione, dal resto della gente. È questa diversità che l’accomuna alla Fasoli, alla Orrù e alla Serenari, ed è la condizione che purtroppo o per fortuna rende ogni vero artista una sorta di alienato o un extraterrestre, una stranezza in mezzo a tanta, spesso troppa, normalità. C’è una filosofia estetica a cui ha corrisposto un fare arte che all’inizio degli ani ’50 ha mantenuto intatti quei valori stilistici che sono propri di un universo culturale che attiene al racconto per immagini, al simbolismo e all’affabulazione. Questa filosofia ha fatto in modo che il progresso non distruggesse quei connotati che permettono, tutt’ora, al futuro di avere comunque delle radici nella tradizione, al progresso una memoria storica da cui attingere, e al caos di divenire cosmo e non inconsapevole disordine. È da qui che a mio parere, nasce la genesi estetica e storico-artistica che rende possibile una congrua lettura delle opere di questa mostra e, in particolare, di Elisabetta Trevisan. Il suo fare arte dimostra un’alta maestria nello strutturare la composizione. Nulla è lasciato alla casualità, come solo una donna sa fare, quest’artista armonizza le zone del quadro in modo che lo spazio disegnato possa risultare infinito pur nella cromaticità satura che lo ricopre. Formidabile è la sua conoscenza della semiologia antica e come riesca a mescolare questa sapienza con la sagacia che solo le donne possiedono con i colori le linee e i soggetti. Le figure risultano misteriose ed enigmatiche; quasi che l’osservatore sia invitato a leggere, capire, interpretare e allo stesso tempo a leggere, capire interpretare se stesso. È il senso antico della catarsi: guardo il quadro e il dialogo tra oggetto e soggetto permette alle figure interiori di riemergere e di innescare il gioco fantastico di riscoprirsi ancora capaci di emozionarsi. La giostra comincia il suo giro e passano le immagini della memoria, i ricordi, le fantasie, i sogni che vorremmo almeno risognare. Ogni sua immagine è dunque pura rivelazione, i suoi soggetti, tutti al femminile, sono tanti oracoli che invece di svelarci arcani ci parlano di emozioni evocate da uno stile elegante in cui il linguaggio degli occhi delle figure formano un dialogo sottile ed intimo con l’osservatore. La staticità è solo nell’apparenza, è come se un vento si fosse fermato all’improvviso, giusto il tempo necessario perché quel preciso attimo si possa vestire d’eternità. Mirabile è la trasparenza che riesce a infondere nei colori e a tutta la tonalità, è come se la secessione viennese e il surrealismo abbiamo trovato nella filosofia estetica di Elisabetta Trevisan la giusta maturazione, la giusta voce, una nuova anima e questa volta tutta al femminile. Il brano che suggerisco d’ascoltare è “Beside You” Simply Red.
Alberto D’Atanasio
a cura di Alberto D'Atanasio
OPERE di:
Marica Fasoli
Stefania Orru'
Roberta Serenari
Elisabetta Trevisan
Vernissage 31 gennaio 2014 ore 17.00
CERP - Centro Espositivo Rocca Paolina
Perugia - Piazza Italia 11
Testo critico:
Questa mostra è nata quasi per caso, più per esigenze curatoriali che per il raggiungimento di obiettivi artistico-estetici. È stato veloce come quando si assiste alla prova generale, quella prima del debutto, per una sinfonia. L’orchestra è lì nella cavea, il direttore è lì al centro non indossa il frac, è vestito normalmente, guarda gli orchestrali, i cantanti solisti e i coristi, illustra il proprio punto di vista sul contenuto e l'impostazione generale del componimento musicale. Nei leggii ci sono i fogli con le partiture e in quello del direttore, oltre alla bacchetta, c’è una matita che servirà per correggere le battute in relazione a come gli orchestrali eseguiranno il tema e le variazioni. Il tema è l’anima perduta e quella ritrovata, che in questo progetto vuole essere intesa e divenire oggetto di ispirazione non solo come essenza del Dio nell’uomo, ma anche come presenza dei simboli archetipi che danno vita e voce alla persona interiore.
L’anima è anche la parte più intima e profonda del nostro Io che contiene le passioni, le rabbie, i sentimenti più intensi e più importanti; una vera fucina delle emozioni.
L’anima come essenza e luogo dove eros e psiche, mente e cuore, si incontrano dando un senso al vissuto e vita al tempo presente.
L’anima come laboratorio magico dell’azione creativa dove si da immagine e forma all’immaginato, a ciò che non si può, talvolta, esprimere a parole.
L’anima è anche il concetto junghiano dell’Animus, cioè la parte del maschile che è nella donna, e dell’Anima, la parte del femminile che invece abita in ogni uomo.
L’anima come unione e scissione, intensa e sublime, tra persona e personaggio.
La creatività e l’arte rendono liberi e donano la capacità dei bisogni che esulano dalla sfera materiale.
Gli artisti sono talvolta persone per natura rivoluzionarie perché mal si adeguano a ciò che è regola imposta e predisposta da altri.
Gli artisti sono liberi e spesso inconsapevolmente pretendono di essere liberanti per quanti vogliono ancora provare ad emozionarsi e percepire sensazioni, passioni, voglia di vivere col cuore e con la ragione dei sentimenti. È così che ho voluto immaginare questa mostra, un tema, un direttore e quattro orchestrali, ma in effetti se è l’anima che si perde e si ritrova, allora, è anche vero, che ognuna di queste, straordinarie artiste, sono direttrici d’orchestra e allo stesso tempo orchestrali. Marica Fasoli, Stefania Orrù, Roberta Serenari, e Elisabetta Trevisan dirigono, con le loro opere, me, che cercherò di collocare quelle stesse opere al meglio perché la sinfonia sia ben interpretata e poi dirigono colori, forme, soggetti affinché poi nell’insieme si possa rivelare quel suono che non ha bisogno di tante parole ma solo di contemplazione e meditazione. Fasoli, Orrù, Serenari, e Trevisan hanno la prerogativa di creare immagini che hanno il sapore antico del mistero e come tale va svelato addentrandosi dentro la figura. Ogni opera è una sorta di percorso dove l’anima si perde e si ritrova.
Marica Fasoli ci fa perdere e ritrovare in un dialogo che attiene più agli esiti di ciò che potrei definire ascolto interiore o più semplicemente contemplazione. Gli abiti senza la persona che li ha indossati sono l’evidenza metafisica della presenza di un corpo che ha lasciato segno di sé in un involucro costruito dall’uomo. Percepiamo visivamente un abito, ma ciò che leggiamo è che l’infinitamente grande si è trasferito nell’infinitamente piccolo e pertanto non può avere volto; ogni soggetto di Marica Fasoli è essenza di chi l’ha indossato. L’involucro ha l’incanto di quell’energia che ha pervaso fin dall’inizio del viaggio quel corpo ed ora è lì nell’indiscutibilità della sua assenza, per sempre fissa in quell’immortalità che solo l’arte sa donare. Le scatole dipinte di Marica altro non sono che il meraviglioso universo in cui l’occhio esplora cose già viste, ma questi oggetti sapientemente ricostruiti con la tecnica a olio, che questa artista conosce in maniera scientifica avendo praticato per anni il sapiente mestiere del restauratore, permettono di recepire lo spazio stesso che il contenitore propone. L’oggetto diviene soggetto in virtù dell’emanazione che l’insieme suscita. quei dipinti che riproducono scatole e il loro contenuto permettono di fissare il tempo con quel meccanismo che si attiva esplorando cose consuete, semplici, che sfioriamo e guardiamo distrattamente ogni giorno. Se l’anima ha bisogno di un involucro per animarsi e manifestarsi allora in questo contesto Marica Fasoli ci indica quei connotati che sono mappa per ritrovare i ricordi e, tramite loro, lo specchio dove si riflette il nostro vero volto, quello che non ha tempo né conosce tempi. Il fare arte di Marica Fasoli permette che gli oggetti comuni diventino punti essenziali perché l’osservazione di un’opera acquisisca un valore esistenziale. In un mondo del mercantile effimero, le icone di quest’artista diventano vero e proprio paradosso. L’oggetto dimenticato, usato, banale nella sua riconoscibilità quotidiana, diviene emblema e simbolo. Il gioco del bimbo, la trina di un vestito da sposa, la massa rinfusa di bottoni dentro uno scomparto, la camicia che fa presumere la fisicità del corpo che la indossava, altro non sono che i connotati che ci permettono di riconoscerci nel tempo vissuto e in quello presente; Marica offre all’osservatore il senso vero delle cose che rendono questo passaggio terrestre meno anonimo. È come se lei rendesse figura le parole del grande poeta contemporaneo Roberto Lerici, che termina la poesia “Quest’amore” con questa frase: “prima che il nulla tutti ci divori che venga, venga presto il tempo in cui ci s’innamori”. Nel fare arte di Marica Fasoli, l’anima torna a richiamare l’immanenza, quasi che per contrasto e per armonia, lei eterea per antonomasia, non possa fare a meno della corporeità. E nell’alchimia del laboratorio quest’artista riproduce tessuti, la porosità di giunchi intrecciati e oggetti che nelle sue icone assurgono a reliquie di un tempo senza tempi. La metafisica perde la sua malinconia e ritrova una nuova musicalità, per queste sue opere consiglierei di farsi accompagnare dalle melodie dei brani: “Missing Words e Save a place for me” di Piers Faccini
Stefania Orrù ci fa perdere e ritrovare nella costruzione delle sue opere che sono manifestazione di un percorso in cui si percepisce inizio e fine. Lei pone la riflessione su quella rara situazione in cui l´artista esplicita la sua essenza nell´opera d´arte e questa ha la sua genesi e si sviluppa nei ricordi e nella dilatazione di questi nel presente. Ogni suo quadro nasce da un´attenta analisi delle sensazioni, delle emozioni e dei sentimenti che si evidenziano nei tratti del viso, negli sguardi, nei movimenti del corpo e nella gestualità. L´idea, in Stefania, nasce sempre da un’introspezione, il suo obiettivo è dar voce e forma a ciò che voce e forma può avere soltanto attraverso il lavoro dell´artista. È come dire che è l’anima ad essere figurata attraverso il suo fare immagine con pennelli, colori e ossidi. Lei raffigura il femminile come fosse l´unica chiave per accedere ad un universo che si apre solo a chi è capace di sentire o guardare non solo con i sensi. Per Modigliani gli occhi che, per volontà dichiarata, dipingeva raramente, erano l´unico accesso per arrivare all´anima dell´individuo e per dipingerla, e in Orrù gli occhi sono la porta perché la semplice osservazione si trasmuti in contemplazione, quasi che la figura ritratta riesca a contemplare colui che guarda e passa. Ciò che propone quest’artista non è fissare un’immagine in modo che diventi concetto astruso, o un monumento al tempo passato, o perché torni e resti alla memoria, la sua eccezionalità sta nel fissare un’emozione generata nell´attimo dell’incontro con l’opera affinché chi osserva abbia la consapevolezza di vivere un momento unico e irripetibile. Le espressioni dei suoi volti hanno la malinconia e talvolta la serietà di chi vive in un mondo incomprensibile che non regala comprensione. L´opera è solo un pretesto che deve liberarsi delle infrastrutture retoriche, per questo la materia dei suoi colori si veste di trasparenza e di luce che non è fisica ma mentale, cosmica, spirituale, la luce indefinibile dell’anima.
Ogni opera di Stefania Orrù è sintesi di un arrivo e di una nuova partenza. Sembra quasi che il tempo abbia corroso le sue immagini senza però intaccarne l’essenza che si rivela in sguardi penetranti, in pose elegantemente sinuose; è la nuova icona della veritas che in Orrù non ha bisogno di nudità, ogni suo quadro è come un canto dimenticato che quando lo si riascolta ci fa accorgere di essere ancora vitali. Per guardare queste sue opere consiglierei le suggestioni del brano “divenire” di Ludovico Einaudi.
Roberta Serenari ci fa perdere e ritrovare con la forza dell’evocazione. Ogni suo quadro è uno sguardo preciso e diretto negli antri dell’anima e se per i padri della psicologia l’animus era diviso in tre persone, quali il bimbo, l’uomo e il vecchio, allora potrei dire che la filosofia estetica che muove quest’artista è una sorta di ponte che permette all’osservatore di valicare le rive del presente e tornare ad esplorare quelle rive lasciate ieri, fino a percorrere il ponte e giungere a terre distanti che ricordiamo, per poi addentraci fino a quelle più remote che necessitano di impegno e memoria. Le immagini di Roberta sono metamorfosi di quei pensieri che si evocano con i ricordi. Le opere di quest’artista uniscono in maniera mirabile il surrealismo di Magritte e la metafisica di Savinio, è così che il tempo nello spazio magico del quadro si ferma e l’icona diventa varco dove perdersi per ritrovarsi. Ed è mirabile come la sua filosofia estetica sia suffragata armonicamente dalla tecnica pittorica, dal disegnato, dalla cura del particolare che concorre come un orchestrale a far sì che la partitura sia ben eseguita. L’opera è lì, sembra avvertirci, Roberta Serenari, “guardate e non abbiate paura di addentrarvi perché è in questa magica esplorazione che si ritroverà quel tempo magnifico rimasto ancora intatto prima che il tempo adulto lo avesse reso opaco”. Il linguaggio visivo non è soltanto dall’opera verso l’osservatore ma più che altro il contrario: non è l’opera che si espone all’osservatore ma è questi che guardando l’opera entra in essa ed espone se stesso a se medesimo. Non esiste utopia, nelle sue raffigurazioni, né irrealtà, esiste solo la voglia di sperare oltre il possibile, oltre la mera ed evidente realtà. In ogni suo dipinto è presente, nell’immagine complessiva o nel particolare della figura, il concetto di porta come varco verso dimensioni che appartengono alla sfera onirica, ma nelle sue figure l’universo onirico, il sogno, non sono effimeri, ma realtà che si realizzano nell’anima di chi guarda. Quando l’osservatore contempla l’opera di Roberta Serenari si trova come davanti a una mappa in cui può trovare la strada per ritrovarsi o per perdersi di nuovo i simboli che lei sapientemente rappresenta sono i quadranti e i punti cardinali servono perché la rotta, sia che ci si perda sia che ci si ritrovi, abbia comunque un senso. Roberta possiede una tecnica assoluta, confesso che mi sono perso a scovare la trama tra la pennellata che descrive velature, e quella che invece tinge zone più vaste. Ho seguito lo sfumato che rende eterea la massa e quello più cupo che rende l’oggetto prossimo ad uscire dal quadro. La Serenari è un’artista che sa suonare in maniera ottimale il suo strumento, per queste sue opere ho pensato a un brano poco conosciuto di Eugenio Finardi: “Una scala per la luna”.
Elisabetta Trevisan fa perdere e ritrovar l’anima con la freschezza di una donna che non ha risentito né del tempo e né dei tempi. Lei ha la freschezza e la spontaneità di chi ha la consapevolezza di essere diversa, per vocazione e condizione, dal resto della gente. È questa diversità che l’accomuna alla Fasoli, alla Orrù e alla Serenari, ed è la condizione che purtroppo o per fortuna rende ogni vero artista una sorta di alienato o un extraterrestre, una stranezza in mezzo a tanta, spesso troppa, normalità. C’è una filosofia estetica a cui ha corrisposto un fare arte che all’inizio degli ani ’50 ha mantenuto intatti quei valori stilistici che sono propri di un universo culturale che attiene al racconto per immagini, al simbolismo e all’affabulazione. Questa filosofia ha fatto in modo che il progresso non distruggesse quei connotati che permettono, tutt’ora, al futuro di avere comunque delle radici nella tradizione, al progresso una memoria storica da cui attingere, e al caos di divenire cosmo e non inconsapevole disordine. È da qui che a mio parere, nasce la genesi estetica e storico-artistica che rende possibile una congrua lettura delle opere di questa mostra e, in particolare, di Elisabetta Trevisan. Il suo fare arte dimostra un’alta maestria nello strutturare la composizione. Nulla è lasciato alla casualità, come solo una donna sa fare, quest’artista armonizza le zone del quadro in modo che lo spazio disegnato possa risultare infinito pur nella cromaticità satura che lo ricopre. Formidabile è la sua conoscenza della semiologia antica e come riesca a mescolare questa sapienza con la sagacia che solo le donne possiedono con i colori le linee e i soggetti. Le figure risultano misteriose ed enigmatiche; quasi che l’osservatore sia invitato a leggere, capire, interpretare e allo stesso tempo a leggere, capire interpretare se stesso. È il senso antico della catarsi: guardo il quadro e il dialogo tra oggetto e soggetto permette alle figure interiori di riemergere e di innescare il gioco fantastico di riscoprirsi ancora capaci di emozionarsi. La giostra comincia il suo giro e passano le immagini della memoria, i ricordi, le fantasie, i sogni che vorremmo almeno risognare. Ogni sua immagine è dunque pura rivelazione, i suoi soggetti, tutti al femminile, sono tanti oracoli che invece di svelarci arcani ci parlano di emozioni evocate da uno stile elegante in cui il linguaggio degli occhi delle figure formano un dialogo sottile ed intimo con l’osservatore. La staticità è solo nell’apparenza, è come se un vento si fosse fermato all’improvviso, giusto il tempo necessario perché quel preciso attimo si possa vestire d’eternità. Mirabile è la trasparenza che riesce a infondere nei colori e a tutta la tonalità, è come se la secessione viennese e il surrealismo abbiamo trovato nella filosofia estetica di Elisabetta Trevisan la giusta maturazione, la giusta voce, una nuova anima e questa volta tutta al femminile. Il brano che suggerisco d’ascoltare è “Beside You” Simply Red.
Alberto D’Atanasio
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