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sabato 8 giugno 2013

Giuseppe Ciracì "A Windsor" a cura di Martina Cavallarin e Massimo Guastella


Giuseppe Ciracì
A Windsor

a cura di:

Martina Cavallarin
Massimo Guastella

Palazzo Vernazza Castromediano | Lecce
http://www.leccenelsalento.it/palazzo-vernazza/
5-18 luglio 2013

Opening: venerdì 5 luglio, ore 20:00



il testo di Martina Cavallarin



Venezia, 29 giugno 2013. La mia prolessi di scrittura espositiva all’ultimo ciclo di lavori di Giuseppe Ciracì A Windsor. Di Martina Cavallarin


La mia prolessi di scrittura espositiva all’ultimo ciclo di lavori di Giuseppe Ciracì A Windsor inizia il 29 giugno, vernice ufficiale della 55° Biennale di Venezia diretta da Massimiliano Gioni, Il Palazzo Enciclopedico. Da mesi il mio lavoro di critica analitica si sta rivolgendo a questa platea internazionale e in particolare al progetto del giovane curatore italiano secondo il quale è possibile ripartire da un’utopia. Utopia è una parola difficile e pericolosa, un territorio in cui si eliminano le differenze, si omologano le cose. Ma questo perché per troppo tempo si è pensato alle grandi utopie; a me piace pensare di tornare alla misura d’uomo, quella che poi riconosco come misura massima, XXL, che può generare il cortocircuito e alimentare la velocità intesa come velocità della mente e profondità del pensiero. Per questa esposizione universale Massimiliano Gioni, direttore della manifestazione, è partito da un’utopia, un progetto mai realizzato dall’artista autodidatta Marino Auriti che nel 1955 depositò, presso l’ufficio brevetti statunitense, il progetto per costruire un edificio di 136 piani, alto 700 metri, per un’estensione di 16 isolati a Washington. Da quest’idea mai realizzata prende titolo la manifestazione veneziana, Il Palazzo Enciclopedico, un processo in corso che Massimiliano Gioni a mio parere ha elaborato con cura e raffinata intelligenza concettuale. Oggi ho percorso le Corderie dell’Arsenale ed esplorato con bulimia il Padiglione delle Esposizioni dei Giardini, il tempio del curatore incaricato, che ha posto al centro della sala centrale il libro rosso di Gustav Jung. Dice Gioni: “Oggi, alle prese con il diluvio dell’informazione, questi tentativi di strutturare la conoscenza in sistemi omnicomprensivi ci appaiono ancora più necessari e ancora più disperati (…) La 55° Esposizione Internazionale d’Arte indaga queste fughe dell’immaginazione in una mostra che – come il Palazzo Enciclopedico di Auriti – combina opere d’arte contemporanea e reperti storici, oggetti trovati e artefatti.”. Il tentativo è la catalogazione del sapere, la mappatura di universi invasivi e invadenti, esagerati e smisurati, dove multidisciplinarietà e metalinguaggi sono insiti nella struttura espositiva per una declinazione costante di sintetizzazione delle cose del mondo, o meglio dei mondi. In tale progetto l’analisi si realizza tra privato e pubblico, personale e universale per un’arte relazionale alle prese con sociale e quotidiano, dentro e fuori un’indagine antropologica prima ancora che artistica. Una rivelazione spuria difficile da strutturare, curiosa da vedere. E ciò che ho visto è stata una densità del “saper fare”, una serie di lavori a intensa temperatura progettuale, indipendenti e compartizzati in stanze personali, concettuali ma densi, il più delle volte aderenti per linguaggio, supporto o struttura formale, spesso elaborati con matita e pennello prima ancora che impostati sulla meccanica bulimica d’installazione o costruzione scultorea. Ed è in questo spazio che sapora di carta, olio, grafite, che innesto il mio pensiero rivolto alla pittura, al disegno, alla capacità e necessità artistica di Giuseppe Ciracì, alla sua ricerca rivolta all’antico e realizzata nel presente. Se la Biennale 2013 attiva “un’indagine sul dominio dell’immaginario e sulle funzioni dell’immaginazione” rifacendosi a quello che lo studioso Hans Belting ha definito una “antropologia delle immagini”, la domanda instillata pone l’accento su quale sia lo spazio concesso all’immaginazione in un’epoca assediata dalle immagini esteriori, un arco storico che Jean Baudrillard nel testo La Sparizione dell’Arte, sostiene forse essere al Grado Xerox della cultura. Guardando a tanta arte e a tanti artisti può sembrare che lo spazio si sia fatto piccolo e angusto e che l’interstizio della soglia delle possibilità conceda troppo alla ferita da cauterizzare con la temperatura liquida dell’arte. Ma l’arte possiede l’arma dell’Impertinenza: sfuggente, endemica e fisiologica, difficile e incatalogabile l’Impertinenza è l’Opera d’Arte, e questa fa la differenza, a mio avviso, ancora una volta. Nella vicinanza tra positivo e negativo di nietzschiana memoria, solo per poco tale intensità determinata dal sovraccarico d’immagini può apparire una minaccia; occorre ripristinare un disordine che è solo denuncia di un altro ordine e di un’altra natura smascherando tutto ciò che è formale, dichiarato, corretto, stabilito. In quest’universo a clima incostante si può innestare il lavoro di un pittore come Giuseppe Ciracì, con la sua atmosfera di lavoro che si muove in movimento tellurico fatto di slittamenti di piani prospettici e ambivalenze di segni più o meno sapienti, volutamente contraffatti o esposti a eccessi di verità.

Se la necessità di Ciracì - necessità in bilico tra iper-realismo e un concettualismo colto e ricercato - risiede nel riuscire a spostare l’inerzia della pittura tradizionale, la pratica – pratica classica con la quale ha cominciato la sua ricerca - sta godendo di evoluzione mentale e formale traducendosi in una condizione di partecipazione e di relazione oggettuale nella proposta di un impiego alternativo dello sguardo che deve funzionare, come in questo ciclo A Windsor, secondo una diversa autonomia e reinventata sotto-realtà. La rappresentazione, minata dall’interno dalla matita e dal pennello, approda proprio a questo tentativo di visione alleggerita, sebbene i soggetti siano forti e impegnativi ponendo sempre il volto, o un preciso brano di anatomia umana, al centro della scena. L’immagine adoperata resta fuori da ogni memoria celebrativa, benché appartenente al suo mondo reale, alla sfera degli affetti e della partecipazione emotiva o quotidiana, e non si riduce mai a puro involucro adducendo problematiche rivolte alla zona invisibile, a ciò che si cela oltre il retinico e di là dal pellicolare. La proprietà predominante del giovane artista pugliese è quella di trattare la superficie della tela come un rullino di scorrimento in cui incursioni e armoniose intrusioni s’intrecciano senza alcuna difficoltà apparente, mentre le facoltà secondarie producono un momento di sosta in cui messinscena e realtà convivono e si fondono tra loro, necessariamente. Mi torna in mente, nella continua ossessiva prolessi, il libro del 2006, The Sight of Death in cui l’autore T.J. Clark parla del suo rifiuto verso i media che affonda da una prolungata esplorazione e rivisitazione di un paio di dipinti di Poussin che egli cerca di vedere e rivedere in tutta la complessità della loro risonanza compositiva. Clark si chiedeva come potesse funzionare la nostra comprensione di un cambiamento d’immagine nel tempo.

Nella lunga giornata di oggi ho visto un’idea, idea disegnata dal progetto del Palazzo Enciclopedico ed esplosa nelle opere della maggior parte degli artisti invitati, ovvero quella di tornare all’utopia del segno con un innesto allargato e chirurgico di trascendenza che abiliti all’incidente e all’inciampo della creazione, con spiritualità da tracciare e rimettere al centro della mappatura antropologica, culturale e sociale del cammino dell’uomo. La mia prolessi al testo di Giuseppe Ciracì è pensare all’inclinazione che l’artista, ciascun artista che in quanto tale vive in crescita e sperimentazione, può dare affinché la sapienza di matita e pennello si articolino attraverso una rete salda di cultura e conoscenza in cui la difformità crea il suo scarto evidenziando l’opera, l’Impertinenza, una necessità strutturale che è la più straordinaria delle imperfezioni possibili, è arte e vita insieme.

© Martina Cavallarin

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