DoppioSogno
da Warhol a Hirst da De Chirico a Boetti
a cura di Luca Beatrice e Arnaldo Colasanti
Nuovo Spazio Mostre Piazzetta Reale - Torino
31 gennaio - 30 aprile 2014
Questa mostra, che inaugura un nuovo
spazio espositivo nel cuore barocco di Torino all’interno del Polo
Reale, nasce dal tentativo di mettere in dialogo una serie di concetti
opposti, solo apparentemente inconciliabili.
Il primo, forse il più ovvio, è il
rapporto tra esterno e interno. Dalla metà di novembre cittadini
piemontesi e turisti in visita nel capoluogo sabaudo si saranno accorti
della presenza di una serie di opere installate tra la Piazzetta Reale,
il cortile di Palazzo Reale e quello di Palazzo Chiablese, dove un tempo
si affacciavano i locali del vecchio Museo del Cinema e della sua
biblioteca, la zona archeologica antistante l’ingresso la Galleria
Sabauda. Si tratta di sculture di conclamati maestri che occupano una
posizione di rilevo nella storia dell’arte recente: da Antonietta
Raphael Mafai, esponente di spicco della Scuola Romana, a Marino Marini,
che ha attraversato con la sua personalità tutta la scultura italiana
del ‘900 per mezzo di frequenti richiami alla tradizione del
primitivismo e al panorama internazionale; da Arman, punta di diamante
del Nouveau Réalisme, che all’inizio degli anni ’60 ha contribuito a
dissacrare le certezze della società dei consumi, ai grandi interpreti
della figurazione italiana, si vedano Francesco Messina con la teatrale Lady Macbeth,
Giacomo Manzù nella rilettura di un Ulisse giovinetto, Augusto Perez
con due presenze monumentali e Giuliano Vangi di cui il capolavoro Ragazza con le trecce
è stato installato nella Sala degli Svizzeri, all’interno di Palazzo
Reale. Avvicinandoci poi al presente, si passa dal grande intervento di
Giuseppe Maraniello, artista emerso con la generazione degli anni ’80,
alla gigantesca testa di Igor Mitoraj, specializzato nelle opere da
esterno che abbelliscono diverse città italiane, ad esempio Milano e
Roma. Insieme ai lavori di Patrizia Guerresi, una mano aperta che
accoglie come in un grembo molle il visitatore e la sua macchina
fotografica, del canadese William Hadd McElcheran e la sua ironica
neo-figurazione, giungiamo infine alle opere di artisti che
rinvigoriscono la tradizione della scultura d’immagine: il Branco
di cani di Velasco (sufficiente identificarlo con il nome di battesimo,
di cognome fa Vitali, il padre Giancarlo è uno dei pittori figurativi
più sensibili fin dagli anni ’50), installato sulle Mura Romane della
Sabauda, un intervento secco e aspro ma ricco di poesia; e la lastra di
metallo sulla quale Giuseppe Bergomi inserisce preziose figurine di
donna in bronzo, dal titolo Cronografia di un corpo, inserendo così nella dimensione statica l’elemento dinamico del tempo.
All’interno, invece, si apre un nuovo
spazio che nei mesi prossimi sarà destinato ad accogliere i visitatori
di Palazzo Reale con mostre temporanee. Si consegna così a Torino un
altro luogo d’arte, con l’inaugurazione della parte “in” di Doppio sogno.
Una passeggiata tra Novecento e contemporanea attraverso una
cinquantina di opere, in una modalità dialogica e non cronologica, con
accostamenti talora impliciti altrove azzardati, naturali eppure
bizzarri, studiati dallo scrittore e critico letterario Arnaldo
Colasanti. Da De Chirico a Andy Warhol, da Felice Casorati ad Alighiero
Boetti, da Alberto Savinio a Damien Hirst, tanto per citare alcuni dei
protagonisti in quella formula nota “da…a” non sempre esaustiva e
rivelatrice della complessità progettuale che sta dietro a una mostra.
Oppure, per meglio dire, dalla Metafisica alla Pop Art, ad esempio di
Mario Schifano, Enrico Baj e Mimmo Rotella per rimanere in Italia ma
anche Warhol e Claes Oldenburg con il bellissimo fiore appartenente alla
collezione del Castello di Rivoli; dall’Arte Povera (Boetti, Giulio
Paolini, in parte Claudio Parmiggiani) alla Transavanguardia (sia quella
italiana di Enzo Cucchi e Sandro Chia sia la tedesca di Markus Lupertz,
AR Penck e Rainer Fetting, fino all’americana di David Salle e James
Brown); dalla nuova figurazione italiana (qui i casi interessanti sono
molti, Daniele Galliano, Valerio Berruti, Andrea Martinelli, Luca
Pignatelli, Velasco, Bernardo Siciliano, Alessandro Papetti, Giorgio
Ortona ecc…) all’era globale (il giovane Carlos Donjuan, il maestro
colombiano Fernando Botero).
Se nel caso della mostra “esterna”
parlare di scultura vien quasi implicito, qui il termine pittura appare
più complesso da sciogliere, anche se esperienze come quelle dei
protagonisti dell’Arte Povera rivelano più di un legame, magari non
immediato, con il linguaggio più antico e tradizionale del mondo. E che
forse tra i Medicine Cabinet di Hirst e le figure
surreal-circensi di Botero le differenze sono talmente evidenti da
sembrare addirittura appartenere a mondi diversi. Nell’accezione
contemporanea “pittura” non riguarda soltanto l’atto del dipingere a
olio e acrilico su un supporto bidimensionale, tela o tavola, ma implica
tutte quelle forme linguistiche, anche indirette, in cui all’opera
viene attribuito un punto di vista unilaterale e unico, preferenziale
anzi obbligatorio. Da che ne consegue che i materiali possono essere
molti e non necessariamente quelli della tradizione classica. In tale
accezione, insomma, sono pittori sia i fedelissimi dell’olio su tela e
dell’immagine come Antonio Nunziante e Stefano Di Stasio, Salvo e il
giovane Nicola Samorì, Tino Stefanoni e Andrea Chiesi, ma tracce di
pittura, citazioni indirette simbolo della temperie postmoderna, si
ritrova anche nella fotografia di Luigi Ontani e nel suo d’àpres David
e in buona parte di quelle tendenze emerse negli anni ’80, tra Neo
Manierismo (Omar Galliani) e ennesima riproposizione della scuola romana
(Pietro Fortuna, Pino Salvatori, Felice Levini), fino alla rotta di
collisione tra pittura e concettuale, ad esempio nel Narciso di Luigi
Stoisa.
Il terzo concetto oppositivo nasce dal
rapporto tra le opere e lo spazio. Abitualmente l’arte contemporanea
vive nel dogma del cosiddetto white cube, zona neutra,
completamente priva di elementi connotativi, sempre uguale a sé stessa
in una sorta di meccanismo di ripetizione per certi versi rassicurante.
In Inside the White Cube, una raccolta di saggi pubblicati per la prima volta nel 1976 sulla rivista Artforum,
tradotti in italiano dalla casa editrice Johan and Levi, l’artista
concettuale Brian O’Doherty afferma che gli artisti devono concepire il
proprio lavoro in relazione allo spazio espositivo e, più in generale,
al sistema dell’arte. Tale ideologia, alla lunga, ha mostrato i propri
limiti, perché capita sempre più spesso che opere perdano completamente
il loro senso se estrapolate dal contesto espositivo e dalla scatola che
le contiene. Per ovviare a questo problema di “credibilità interna”,
sono in diversi a tentare il confronto con spazi completamente diversi:
musei d’arte antica, dimore storiche, musei tematici, interagendo con
gli elementi decorativi presenti, senza la pretesa di azzerare la storia
in una sorta di rivoluzione culturale cinese dell’arte. Le cronache
recenti parlano di mostre memorabili d’arte contemporanea al Louvre o
alla Reggia di Versailles, per un inesausto cortocircuito tra antico e
moderno, classico e attuale, memoria e presente. Risulta dunque sempre
più interessante capire come reagisce l’arte di oggi alle prese con un
contenitore storico, se riescono a dialogare e interagire due pubblici
sostanzialmente diversi e con differenti motivazioni. E se davvero
l’arte contemporanea, privata del proprio ombrello protettivo in cui la
fa da padrona la teoria del contesto, riesca a mantenere le sue
motivazioni iniziali. Nel nuovo spazio espositivo del Polo Reale
torinese, progettato con tutti i crismi e nel rispetto delle regole del
gusto corrente, basta spostare lo sguardo di pochi metri per ritrovare i
gioielli della decorazione, dell’architettura e della pittura barocca, a
favorire così un diverso livello di lettura delle opere esposte e
presentate al visitatore.
E infine: riesce la parola scritta a
raccontare con altrettanta energia le stesse avventure delle immagini
davanti ai nostri occhi? Dal punto di vista linguistico questa è la
sfida più interessante: restituire con un altro mezzo le medesime
sensazioni arricchendole anzi di ulteriori interpretazioni. Dove ogni
tanto la critica specializzata si arena nel conformismo dialettico,
viene in soccorso la categoria del letterario, che qualcuno vede come un
difetto ma che invece rappresenta un’ottima ipotesi narrativa pur
lasciando per strada la più rigida filologia. E Doppio sogno
mira a essere una mostra letteraria, proprio perché si è creata
un’ideale staffetta tra i due curatori. A chi scrive il compito di
scegliere le opere, ad Arnaldo Colasanti quello di ordinarle in un
racconto con l’intenzione di restituire al pubblico un’ipotesi comunque
differente, onirica, sospesa nel tempo e nello spazio. Forse più
somigliante a un romanzo, o una poesia, che non a un accrochage come si
conviene.
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