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giovedì 6 febbraio 2014

DoppioSogno - da Warhol a Hirst da De Chirico a Boetti

DoppioSogno 
da Warhol a Hirst da De Chirico a Boetti
 a cura di Luca Beatrice e Arnaldo Colasanti
Nuovo Spazio Mostre Piazzetta Reale - Torino
31 gennaio - 30 aprile 2014


Questa mostra, che inaugura un nuovo spazio espositivo nel cuore barocco di Torino all’interno del Polo Reale, nasce dal tentativo di mettere in dialogo una serie di concetti opposti, solo apparentemente inconciliabili.
Il primo, forse il più ovvio, è il rapporto tra esterno e interno. Dalla metà di novembre cittadini piemontesi e turisti in visita nel capoluogo sabaudo si saranno accorti della presenza di una serie di opere installate tra la Piazzetta Reale, il cortile di Palazzo Reale e quello di Palazzo Chiablese, dove un tempo si affacciavano i locali del vecchio Museo del Cinema e della sua biblioteca, la zona archeologica antistante l’ingresso la Galleria Sabauda. Si tratta di sculture di conclamati maestri che occupano una posizione di rilevo nella storia dell’arte recente: da Antonietta Raphael Mafai, esponente di spicco della Scuola Romana, a Marino Marini, che ha attraversato con la sua personalità tutta la scultura italiana del ‘900 per mezzo di frequenti richiami alla tradizione del primitivismo e al panorama internazionale; da Arman, punta di diamante del Nouveau Réalisme, che all’inizio degli anni ’60 ha contribuito a dissacrare le certezze della società dei consumi, ai grandi interpreti della figurazione italiana, si vedano Francesco Messina con la teatrale Lady Macbeth, Giacomo Manzù nella rilettura di un Ulisse giovinetto, Augusto Perez con due presenze monumentali e Giuliano Vangi di cui il capolavoro Ragazza con le trecce è stato installato nella Sala degli Svizzeri, all’interno di Palazzo Reale. Avvicinandoci poi al presente, si passa dal grande intervento di Giuseppe Maraniello, artista emerso con la generazione degli anni ’80, alla gigantesca testa di Igor Mitoraj, specializzato nelle opere da esterno che abbelliscono diverse città italiane, ad esempio Milano e Roma. Insieme ai lavori di Patrizia Guerresi, una mano aperta che accoglie come in un grembo molle il visitatore e la sua macchina fotografica, del canadese William Hadd McElcheran e la sua ironica neo-figurazione, giungiamo infine alle opere di artisti che rinvigoriscono la tradizione della scultura d’immagine: il Branco di cani di Velasco (sufficiente identificarlo con il nome di battesimo, di cognome fa Vitali, il padre Giancarlo è uno dei pittori figurativi più sensibili fin dagli anni ’50), installato sulle Mura Romane della Sabauda, un intervento secco e aspro ma ricco di poesia; e la lastra di metallo sulla quale Giuseppe Bergomi inserisce preziose figurine di donna in bronzo, dal titolo Cronografia di un corpo, inserendo così nella dimensione statica l’elemento dinamico del tempo.
All’interno, invece, si apre un nuovo spazio che nei mesi prossimi sarà destinato ad accogliere i visitatori di Palazzo Reale con mostre temporanee. Si consegna così a Torino un altro luogo d’arte, con l’inaugurazione della parte “in” di Doppio sogno. Una passeggiata tra Novecento e contemporanea attraverso una cinquantina di opere, in una modalità dialogica e non cronologica, con accostamenti talora impliciti altrove azzardati, naturali eppure bizzarri, studiati dallo scrittore e critico letterario Arnaldo Colasanti. Da De Chirico a Andy Warhol, da Felice Casorati ad Alighiero Boetti, da Alberto Savinio a Damien Hirst, tanto per citare alcuni dei protagonisti in quella formula nota “da…a” non sempre esaustiva e rivelatrice della complessità progettuale che sta dietro a una mostra. Oppure, per meglio dire, dalla Metafisica alla Pop Art, ad esempio di Mario Schifano, Enrico Baj e Mimmo Rotella per rimanere in Italia ma anche Warhol e Claes Oldenburg con il bellissimo fiore appartenente alla collezione del Castello di Rivoli; dall’Arte Povera (Boetti, Giulio Paolini, in parte Claudio Parmiggiani) alla Transavanguardia (sia quella italiana di Enzo Cucchi e Sandro Chia sia la tedesca di Markus Lupertz, AR Penck e Rainer Fetting, fino all’americana di David Salle e James Brown); dalla nuova figurazione italiana (qui i casi interessanti sono molti, Daniele Galliano, Valerio Berruti, Andrea Martinelli, Luca Pignatelli, Velasco, Bernardo Siciliano, Alessandro Papetti, Giorgio Ortona ecc…) all’era globale (il giovane Carlos Donjuan, il maestro colombiano Fernando Botero).
Se nel caso della mostra “esterna” parlare di scultura vien quasi implicito, qui il termine pittura appare più complesso da sciogliere, anche se esperienze come quelle dei protagonisti dell’Arte Povera rivelano più di un legame, magari non immediato, con il linguaggio più antico e tradizionale del mondo. E che forse tra i Medicine Cabinet di Hirst e le figure surreal-circensi di Botero le differenze sono talmente evidenti da sembrare addirittura appartenere a mondi diversi. Nell’accezione contemporanea “pittura” non riguarda soltanto l’atto del dipingere a olio e acrilico su un supporto bidimensionale, tela o tavola, ma implica tutte quelle forme linguistiche, anche indirette, in cui all’opera viene attribuito un punto di vista unilaterale e unico, preferenziale anzi obbligatorio. Da che ne consegue che i materiali possono essere molti e non necessariamente quelli della tradizione classica. In tale accezione, insomma, sono pittori sia i fedelissimi dell’olio su tela e dell’immagine come Antonio Nunziante e Stefano Di Stasio, Salvo e il giovane Nicola Samorì, Tino Stefanoni e Andrea Chiesi, ma tracce di pittura, citazioni indirette simbolo della temperie postmoderna, si ritrova anche nella fotografia di Luigi Ontani e nel suo d’àpres David e in buona parte di quelle tendenze emerse negli anni ’80, tra Neo Manierismo (Omar Galliani) e ennesima riproposizione della scuola romana (Pietro Fortuna, Pino Salvatori, Felice Levini), fino alla rotta di collisione tra pittura e concettuale, ad esempio nel Narciso di Luigi Stoisa.
Il terzo concetto oppositivo nasce dal rapporto tra le opere e lo spazio. Abitualmente l’arte contemporanea vive nel dogma del cosiddetto white cube, zona neutra, completamente priva di elementi connotativi, sempre uguale a sé stessa in una sorta di meccanismo di ripetizione per certi versi rassicurante. In Inside the White Cube, una raccolta di saggi pubblicati per la prima volta nel 1976 sulla rivista Artforum, tradotti in italiano dalla casa editrice Johan and Levi, l’artista concettuale Brian O’Doherty afferma che gli artisti devono concepire il proprio lavoro in relazione allo spazio espositivo e, più in generale, al sistema dell’arte. Tale ideologia, alla lunga, ha mostrato i propri limiti, perché capita sempre più spesso che opere perdano completamente il loro senso se estrapolate dal contesto espositivo e dalla scatola che le contiene. Per ovviare a questo problema di “credibilità interna”, sono in diversi a tentare il confronto con spazi completamente diversi: musei d’arte antica, dimore storiche, musei tematici, interagendo con gli elementi decorativi presenti, senza la pretesa di azzerare la storia in una sorta di rivoluzione culturale cinese dell’arte. Le cronache recenti parlano di mostre memorabili d’arte contemporanea al Louvre o alla Reggia di Versailles, per un inesausto cortocircuito tra antico e moderno, classico e attuale, memoria e presente. Risulta dunque sempre più interessante capire come reagisce l’arte di oggi alle prese con un contenitore storico, se riescono a dialogare e interagire due pubblici sostanzialmente diversi e con differenti motivazioni. E se davvero l’arte contemporanea, privata del proprio ombrello protettivo in cui la fa da padrona la teoria del contesto, riesca a mantenere le sue motivazioni iniziali. Nel nuovo spazio espositivo del Polo Reale torinese, progettato con tutti i crismi e nel rispetto delle regole del gusto corrente, basta spostare lo sguardo di pochi metri per ritrovare i gioielli della decorazione, dell’architettura e della pittura barocca, a favorire così un diverso livello di lettura delle opere esposte e presentate al visitatore.
E infine: riesce la parola scritta a raccontare con altrettanta energia le stesse avventure delle immagini davanti ai nostri occhi? Dal punto di vista linguistico questa è la sfida più interessante: restituire con un altro mezzo le medesime sensazioni arricchendole anzi di ulteriori interpretazioni. Dove ogni tanto la critica specializzata si arena nel conformismo dialettico, viene in soccorso la categoria del letterario, che qualcuno vede come un difetto ma che invece rappresenta un’ottima ipotesi narrativa pur lasciando per strada la più rigida filologia. E Doppio sogno mira a essere una mostra letteraria, proprio perché si è creata un’ideale staffetta tra i due curatori. A chi scrive il compito di scegliere le opere, ad Arnaldo Colasanti quello di ordinarle in un racconto con l’intenzione di restituire al pubblico un’ipotesi comunque differente, onirica, sospesa nel tempo e nello spazio. Forse più somigliante a un romanzo, o una poesia, che non a un accrochage come si conviene.

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