RITENGO CHE SIA DOVERE DI CHIUNQUE E A MAGGIOR RAGIONE DI NOI ITALIANI, FARE DI TUTTO PER PROMUOVERE, SALVAGUARDARE E DIVULGARE L'ARTE IN TUTTE LE SUE ESPRESSIONI.
UNA SOCIETA' DISTRATTA SUI FATTI DELL'ARTE E' UNA SOCIETA' VOTATA ALL'IMPOVERIMENTO... E NOI, DA QUESTO PUNTO DI VISTA, LO SIAMO GIA' ABBASTANZA!






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mercoledì 12 ottobre 2011

Un estratto dell'intervista a Cattelan su IO DONNA...


In attesa di quello che succederà a New York in novembre... un'anteprima...
un estratto dell'intervista a Cattelan,  su IO DONNA, in edicola dal prossimo 15 ottobre...

Maurizio Cattelan

 Partiamo dalle sue origini. Prima che la sua opera di infaticabile perturbatore la portasse a diventare così celebre, lei ha avuto un percorso esistenziale inconsueto, all’americana. Né aiuti né tradizione di famiglia. Ci riassume le tappe?
Papà camionista, mamma donna delle pulizie. A tredici anni vendevo souvenir e santini nella basilica di Sant’Antonio, poi ho lavorato in una lavanderia automatica. A diciassette sono andato a vivere da solo. Per mantenermi facevo l’infermiere. Lavoravo tutto il giorno e la sera frequentavo le serali. Di tutti i lavori che ho fatto, l’infermiere è il mio preferito. Per via del rapporto umano coi malati. Poi ho cercato qualcosa di meno impegnativo, la raccolta dei rifiuti. Finivo alle due del pomeriggio: lì ho assaggiato la libertà. Infine l’obitorio: portare, lavare, vestire i cadaveri. Di tutti i lavori, il più sereno. Non c’era coinvolgimento emotivo coi degenti.
Forse mi sono spinto fin lì, all’ultimo stadio, per essere costretto a cambiare. A venticinque anni ce l’ho fatta: ho smesso di lavorare.

Com’è andata?
Non ce la facevo più: la necessità di lavorare, per sostentarmi, si è trasformata un po’ alla volta in autolesionismo. Avevo una lametta in tasca e mi tagliavo le dita, per poter andare al pronto soccorso e avere qualche giorno di malattia. A quel punto partivo per Amsterdam, che era la Bologna del nord. Lì ho scoperto il mondo degli artisti che occupavano fabbriche abbandonate. Poi tornavo a casa e, dopo una settimana, mi tagliavo di nuovo con la lametta. Non poteva durare. Un giorno, il più importante della mia vita, mi sono licenziato. E ho deciso che non avrei mai più lavorato. Ci sono voluti dieci anni per correggere l’educazione sbagliata ricevuta dalla mia famiglia: il lavoro visto come strumento per sopravvivere. Io invece volevo un lavoro che servisse a emanciparmi.

Da lì le prime opere, il successo in Italia, il trasferimento a New York, nel ’93. Una carriera all’insegna di una meditazione scherzosa ma profonda, sempre accompagnata da una gran quantità di polemiche. Da quelle per i bambini-fantoccio impiccati a una pianta, a Milano, a quelle per Nona ora, con il papa abbattuto da un meteorite, per finire con Love, la mano di cui resta solo un dito medio, installata davanti alla Borsa, sempre a Milano.
Produco cose che interagiscono col pubblico e coi media. Non mi piace un lavoro che non produce una risposta. Se è buono, deve essere in grado di farsi amici e anche nemici. Solo quando non si è sicuri si è molto sensibili alle critiche. Però, di solito, se non sono sicuro, non espongo.
Prima ci penso tante di quelle volte…

1 commento:

  1. Papà camionista, mamma donna delle pulizie?!!!!!
    Davvero? E l'industria di mobili allora è mia?

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