Il lavoro di Martina Cavallarin, curatrice di questa mostra, non ha certo bisogno del mio riconoscimento. Ho già scritto in diverse occasioni di quanta stima possa nutrire nei suoi confronti.
Importante invece, a mio parere, è sottolineare la validità del gesto pittorico di ambedue gli artisti in questione. Sapienti e raffinati stanno compiendo un percorso fra i più interessanti della scena artistica contemporanea... da vedere!
"Aspettando Lupin" mostra bipersonale degli artisti Federico Arcuri e Giuseppe Ciracì a cura di Martina Cavallarin
Aspettando LupinFederico Arcuri Giuseppe Ciracì
a cura di Martina Cavallarin
PAOLA RESCIO GALLERY
a cura di Martina Cavallarin
PAOLA RESCIO GALLERY
via Rasori 8 Milano
da giovedì 24 marzo
Aspettando Lupin è una personale a due voci interpretata da due emergenti artisti contemporanei, due pittori che, attraverso una differente visione, affrontano i temi dell’esistenza e della precarietà dell’essere umano tra segni a matita e tratti di acrilico. Se Lupin è il ladro gentiluomo della letteratura, la pratica pittorica contemporanea si avvale di un processo di “integrazione”, una “rapina giustificata e necessaria”, termini che sarebbe appunto graditi a Lupin, per applicare la trasversalità dell’arte attuale ad una prassi sapiente ed antica come la pittura.
Infatti l’arte in questo primo scorcio di millennio si specchia trasversalmente, spiazzata da antenati illustri, interdisciplinarietà e metalinguaggi. La conseguenza è un’oscillazione psicologica che rende difficile la pratica del presente se non tramite il raccordo di un linguaggio e un atteggiamento fortemente individualistico nei confronti del mondo. La pittura contemporanea
ancor più di ogni altra pratica artistica è interrogazione e oggetto d’interrogazione, affondando in radici antiche, dai tatuaggi di Lascaux fino ad arrivare alla dimensione basata sulla memoria e la citazione dei movimenti degli anni Ottanta con la Transavanguardia calda e fredda, per approdare alle derive di fine millennio, le ibridazioni linguistiche anche di stampo performativo
ridimensionate dopo la caduta delle Torri, dopo la cesoia imprescindibile dell’11 settembre 2001. Allora si è proposta una nuova sensibilità figurativa nella quale segni netti e gesti energetici hanno restituito vigore, senso e uno spessore contemporaneo all’impianto della pittura d’immagine. In una naturale tendenza all’entropia la capacità della pittura è ora la rielaborazione dei suoi codici in una chiave di complessità che si rivela in una trasversale mancanza di linearità e fluida narrazione.
Infatti l’arte in questo primo scorcio di millennio si specchia trasversalmente, spiazzata da antenati illustri, interdisciplinarietà e metalinguaggi. La conseguenza è un’oscillazione psicologica che rende difficile la pratica del presente se non tramite il raccordo di un linguaggio e un atteggiamento fortemente individualistico nei confronti del mondo. La pittura contemporanea
ancor più di ogni altra pratica artistica è interrogazione e oggetto d’interrogazione, affondando in radici antiche, dai tatuaggi di Lascaux fino ad arrivare alla dimensione basata sulla memoria e la citazione dei movimenti degli anni Ottanta con la Transavanguardia calda e fredda, per approdare alle derive di fine millennio, le ibridazioni linguistiche anche di stampo performativo
ridimensionate dopo la caduta delle Torri, dopo la cesoia imprescindibile dell’11 settembre 2001. Allora si è proposta una nuova sensibilità figurativa nella quale segni netti e gesti energetici hanno restituito vigore, senso e uno spessore contemporaneo all’impianto della pittura d’immagine. In una naturale tendenza all’entropia la capacità della pittura è ora la rielaborazione dei suoi codici in una chiave di complessità che si rivela in una trasversale mancanza di linearità e fluida narrazione.
Giuseppe Ciracì
La rappresentazione minata dall’interno dalla matita e dal pennello di Giuseppe Ciracì approda proprio al tentativo di visione alleggerita, sebbene i soggetti siano forti e impegnativi ponendo l’artista sempre il volto al centro della scena. L’immagine adoperata fuori da ogni
memoria celebrativa non si riduce mai a puro involucro adducendo problematiche rivolte alla zona invisibile, a ciò che si cela oltre il retinico e di là dal pellicolare. La proprietà predominante dell’artista brindisino è quella di trattare la superficie della tela come un rullino di scorrimento in cui incursioni e armoniose intrusioni s’intrecciano senza alcuna difficoltà apparente producendo un momento di sosta in cui messinscena e realtà convivono e si fondono.
In definitiva Ciracì viola l’esistenza del linguaggio convenzionale legato alla storia della pittura attraverso la moltiplicazione feconda di un sottolinguaggio personale e sagace in cui la coniugazione di un tempo totale e sospeso contiene quello iniziale della vita e delle sue forme sensibili. In questa linea di tensione l’artista trova il clima della resurrezione di una cifra unica e ingiudicabile, capace di costruire erotismo anche nella definizione maniacale di un’ossatura o nella leggerezza persistente di un particolare anatomico. L’esigenza primaria di Ciracì è il cammino pittorico
verso l’essenza - reso ancora più intrigante dai confini costretti della carta - accostato alla costruzione di presenze doppie dove abitano il fare e il pensare.
Federico Arcuri
Si può privilegiare il modo, la snellezza del gesto nell’impattare a livello retinico la pittura di Federico Arcuri, oppure si può scendere sotto la superficie pellicolare attraverso altre forme di empatia, quelle che avvicinano l’arte ai misteri dell’uomo, al suo desiderio di gettarsi a capofitto nel dubbio e nell’incerto per provocare uno scarto che solo un gesto atletico di addominali e meningi fa risaltare alla luce, seppur rarefatta. E quella del pittore italo-olandese è pratica che si serve della materia, della tela, del gesso, dell’impasto, di timbri, di plastiche e materiali artificiali, delle cromie mai assemblate, ma sempre congiunte in coppia, bianco-nero, luce-ombra, irrorazione e smorzatura. Un codice che vive di vicinanze calibrate che si staccano a fatica da una tradizione antica e selettiva, ma che trovano nella cultura del cogliere l’attimo, dell’istante
catturato con violenta precisione la loro espressione più contemporanea, concentrata, giustificata dallo stare attento, da parte di Arcuri, alle cose del mondo, ad una quotidianità che troppo spesso viene messa in disparte per evitare il confronto con i disagi esistenziali e i minimi indizi
della normalità.
La rappresentazione minata dall’interno dalla matita e dal pennello di Giuseppe Ciracì approda proprio al tentativo di visione alleggerita, sebbene i soggetti siano forti e impegnativi ponendo l’artista sempre il volto al centro della scena. L’immagine adoperata fuori da ogni
memoria celebrativa non si riduce mai a puro involucro adducendo problematiche rivolte alla zona invisibile, a ciò che si cela oltre il retinico e di là dal pellicolare. La proprietà predominante dell’artista brindisino è quella di trattare la superficie della tela come un rullino di scorrimento in cui incursioni e armoniose intrusioni s’intrecciano senza alcuna difficoltà apparente producendo un momento di sosta in cui messinscena e realtà convivono e si fondono.
In definitiva Ciracì viola l’esistenza del linguaggio convenzionale legato alla storia della pittura attraverso la moltiplicazione feconda di un sottolinguaggio personale e sagace in cui la coniugazione di un tempo totale e sospeso contiene quello iniziale della vita e delle sue forme sensibili. In questa linea di tensione l’artista trova il clima della resurrezione di una cifra unica e ingiudicabile, capace di costruire erotismo anche nella definizione maniacale di un’ossatura o nella leggerezza persistente di un particolare anatomico. L’esigenza primaria di Ciracì è il cammino pittorico
verso l’essenza - reso ancora più intrigante dai confini costretti della carta - accostato alla costruzione di presenze doppie dove abitano il fare e il pensare.
Federico Arcuri
Si può privilegiare il modo, la snellezza del gesto nell’impattare a livello retinico la pittura di Federico Arcuri, oppure si può scendere sotto la superficie pellicolare attraverso altre forme di empatia, quelle che avvicinano l’arte ai misteri dell’uomo, al suo desiderio di gettarsi a capofitto nel dubbio e nell’incerto per provocare uno scarto che solo un gesto atletico di addominali e meningi fa risaltare alla luce, seppur rarefatta. E quella del pittore italo-olandese è pratica che si serve della materia, della tela, del gesso, dell’impasto, di timbri, di plastiche e materiali artificiali, delle cromie mai assemblate, ma sempre congiunte in coppia, bianco-nero, luce-ombra, irrorazione e smorzatura. Un codice che vive di vicinanze calibrate che si staccano a fatica da una tradizione antica e selettiva, ma che trovano nella cultura del cogliere l’attimo, dell’istante
catturato con violenta precisione la loro espressione più contemporanea, concentrata, giustificata dallo stare attento, da parte di Arcuri, alle cose del mondo, ad una quotidianità che troppo spesso viene messa in disparte per evitare il confronto con i disagi esistenziali e i minimi indizi
della normalità.
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